INDICE
1)
LA DISCIPLINA DEL SILENZIO NEL QUADRO DELLA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO: EVOLUZIONE NORMATIVA
2) LA DISCIPLINA INTRODOTTA DALLA LEGGE N° 69
DEL 2009
3) LA CONFERENZA DEI SERVIZI
4) SILENZIO DINIEGO - SILENZIO ASSENSO -
SILENZIO INADEMPIMENTO
5) IL SILENZIO SULL’ISTANZA DI RILASCIO DEL
PERMESSO DI COSTRUIRE
6) L’OBBLIGO DI PROVVEDERE DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE
7) LA RIPROPONIBILITA’ DELL’ISTANZA DI AVVIO
DEL PROCEDIMENTO
8) LA COGNIZIONE SULLA FONDATEZZA DELL’ISTANZA
9) GIUDIZIO SUL SILENZIO: GIURISDIZIONE E
ASPETTI PROCESSUALI
10) GIUDIZIO SUL
SILENZIO E RISARCIMENTO DEL DANNO
11) IL
COMMISSARIO AD ACTA
1)
LA DISCIPLINA DEL
SILENZIO NEL QUADRO DELLA DISCIPLINA DEL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO:
EVOLUZIONE NORMATIVA
Una
disciplina generale del silenzio della Pubblica Amministrazione è stata
introdotta, nell’ambito della disciplina del procedimento amministrativo,
nell’art. 2 della legge n° 241 del 1990, secondo cui (versione originaria):
– ove il procedimento consegua
obbligatoriamente ad un’istanza ovvero debba essere iniziato d’ufficio, la
Pubblica Amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’adozione di un
provvedimento espresso;
- le
Pubbliche Amministrazioni determinano, per ciascun tipo di procedimento, in
quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il
termine entro cui esso deve concludersi. Tale termine decorre dall’inizio
d’ufficio del procedimento o dal
ricevimento della domanda, se il procedimento è ad iniziativa di parte;
- qualora
le Pubbliche Amministrazioni non provvedano ai sensi del comma 2, il termine è
di 30 giorni.
Nello
stesso anno vengono introdotti, anche da altre leggi, istituti volti a ridurre
l’inerzia della Pubblica Amministrazione.
Così
l’art. 27 della legge n° 142 del 1990 prevedeva l’istituto dell’accordo di
programma per agevolare la conclusione di procedimenti connessi, di competenza
di Amministrazioni diverse.
In
tal modo si mirava soprattutto ad evitare il rischio che la mancata conclusione
di un procedimento provocasse l’impossibilità di concludere i procedimenti
connessi.
In
particolare il secondo comma del sopra richiamato art. 27 stabiliva che
l’accordo può prevedere anche interventi surrogatori di eventuali inadempienze
dei soggetti partecipanti.
Il
sesto comma demandava ad un apposito collegio la vigilanza sull’esecuzione
dell’accordo di programma e gli eventuali interventi sostitutivi.
L’art.
50 della legge n° 142 del 1990 disciplinava poi il termine da rendere da parte
delle Pubbliche Amministrazioni a favore degli enti locali.
Il
1990 ha
segnato anche la riformulazione (da parte della legge n° 86 del 1990) dell’art.
328 del cod. pen., relativo al delitto di omissione di atti d’ufficio.
L’art.
16 del D. Lgs. n° 29 del 1993 prevedeva che i dirigenti generali verificano e
controllano le attività dei dirigenti , anche con potere sostitutivo in caso di
inerzia degli stessi.
L’art.
17 della legge n° 59 del 1997 delegava il Governo a prevedere, per i casi di
mancato rispetto dei termini del procedimento, di mancata o ritardata adozione
del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e
delle prestazioni, da parte della Pubblica Amministrazione, forme di indennizzo
automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento.
L’art.
11 del D. Lgs. n° 286 del 1999 (in materia di qualità dei servizi pubblici e di
carte dei servizi) ha previsto che le
modalità di definizione, adozione e pubblicizzazione degli standard di qualità,
i casi e le modalità di adozione delle carte dei servizi, i criteri di
misurazione della qualità dei servizi, le condizioni di tutela degli utenti,
nonché i casi e le modalità di indennizzo automatico e forfettario all’utenza
per mancato rispetto degli standard di qualità, sono stabiliti con direttive,
aggiornabili annualmente, del Presidente del Consiglio dei Ministri.
Il
terzo comma dell’art. 7 della legge n° 1034 del 1971, nel testo modificato
dall’art. 7 della legge n° 205 del 2000, ha previsto il risarcimento del danno in
ogni caso di giurisdizione del giudice amministrativo e dunque anche nel caso
di comportamento silente della Pubblica Amministrazione.
La
legge n° 205 del 2000 ha
introdotto, con l’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971, un giudizio
accelerato sul silenzio e dunque maggiore facilità di repressione di tale
condotta.
La
legge n ° 15 del 2005 ha
previsto che per esperire il giudizio sul silenzio non è necessaria la previa
diffida all’Amministrazione e che il giudice amministrativo può conoscere la
fondatezza dell’istanza.
La
stessa legge n° 15 del 2005
ha introdotto l’art. 10-bis della legge n° 241 del 1990,
che prevede la comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza
(c.d. preavviso di rigetto).
L’introduzione
di tale istituto ha posto il problema se i termini di conclusione del
procedimento sono rispettati, se si fa riferimento alla data di comunicazione
del preavviso di rigetto anziché alla data del diniego finale.
La
prima soluzione muove dalla considerazione che, ai sensi dell'art. 10-bis della
legge n° 241 del 1990, il preavviso di rigetto interrompe i termini per
concludere il procedimento, che iniziano nuovamente a decorrere dalla data di
presentazione delle osservazioni, o in mancanza, dalla scadenza del termine
assegnato.
Soccorre
anche l’art. 2945 del cod. civ. secondo cui, per effetto dell’interruzione del
termine, a differenza della sospensione del termine, si inizia un nuovo periodo
di computo.
Del
resto anche ponendosi in una prospettiva civilistica di Amministrazione che
deve adempiere, nel momento in cui essa comunica il preavviso di rigetto, fa
presente di avere concluso il procedimento, ponendo termine agli adempimenti a
proprio carico e rilevando che l’istanza non può essere accolta.
Tale
assunto è confermato dall’art. 146 comma 8 del D. Lgs. n° 42 del 2004, che
equipara, per quanto attiene al rispetto dei termini del procedimento l’autorizzazione
paesaggistica al preavviso di rigetto (“Entro venti giorni dalla ricezione del parere del Soprintendente, l'Amministrazione
rilascia l'autorizzazione ad esso conforme oppure comunica agli interessati il
preavviso di provvedimento negativo ai sensi dell'articolo 10-bis della legge
n° 240 del 1990”).
La tesi contraria, secondo cui i termini
di conclusione del procedimento devono comunque fare riferimento alla data di
adozione del provvedimento finale, poggia sull’avverbio “tempestivamente” con
cui deve essere comunicato il preavviso di diniego.
Il significato dell’avverbio
“tempestivamente” sarebbe appunto quello di consentire che la data di adozione
del provvedimento finale rispetti i termini di conclusione del procedimento.
Essendo tuttavia la concreta fissazione
dei termini per provvedere demandata al potere regolamentare delle Pubbliche
Amministrazioni (nei limiti stabiliti dall’art. 2 della legge n° 241 del 1990),
è opportuno che in tali regolamenti sia prevista la specifica fissazione del
termine per la comunicazione sia del preavviso di rigetto sia del provvedimento
finale di diniego.
2) LA DISCIPLINA INTRODOTTA DALLA LEGGE N° 69
DEL 2009
Tra
le disposizioni introdotte dalla legge n° 69 del 2009 (modificative della legge
n° 241 del 1990), volte a contrastare l’inerzia della Pubblica Amministrazione,
si segnalano le seguenti.
La
mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di
valutazione della responsabilità dirigenziale (comma 9 dell’art. 2 della legge
n° 241 del 1990).
È
stato previsto espressamente che le Pubbliche Amministrazioni e i soggetti
privati preposti all’esercizio di attività amministrative sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza
dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Le
controversie sono devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Il
diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni (art. 2-bis della
legge n° 241 del 1990).
L’art.
16 della legge n° 241 del 1990 disciplina i pareri che devono essere resi dagli
organi consultivi delle Pubbliche Amministrazioni.
Affinchè
tali pareri non si traducano in un aggravamento del procedimento, devono essere
resi entro 20 giorni dal ricevimento della richiesta e con mezzi telematici.
Nel
caso di parere obbligatorio non reso o
senza che l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, è in facoltà
dell’Amministrazione richiedente di procedere indipendentemente
dall’espressione del parere.
Se
invece il parere è facoltativo, l’inutile decorrenza del termine obbliga
l’Amministrazione a provvedere.
Il
responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere di eventuali
danni derivanti dalla mancata espressione dei pareri.
Questo
ovviamente non significa esenzione da responsabilità per i danni riconducibili
all’adozione del provvedimento emesso in assenza di parere.
Tali
disposisizioni non si applicano ai pareri che debbano essere rilasciati da Amministrazioni
preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei
cittadini, né ai pareri resi dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici.
Nel
caso in cui l’organo adito abbia rappresentato esigenze istruttorie, i termini
di cui al comma 1 possono essere interrotti per una sola volta e il parere deve
essere essere definitivamente reso entro 15 giorni dalla ricezione degli
elementi istruttori da parte delle
amministrazioni interessate.
L’art.
17 della legge n° 241 del 1990 disciplina i termini da rendere dagli organi
chiamati ad esprimere valutazioni tecniche.
La
finalità acceleratoria di contrasto dell’inerzia della Pubblica Amministrazione
è anche sottesa alla disciplina della denuncia d’inizio d’attività e del
silenzio assenso.
La
competenza del legislatore statale a disciplinare la materia del silenzio della
Pubblica Amministrazione è disciplinata dall’art. 29 della legge n° 241 del
1990.
Attengono
alla legislazione esclusiva dello Stato, in quanto riguardanti la
determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale
ai sensi dell’art. 117 lettera m) della Costituzione:
-
le disposizioni concernenti gli obblighi per la Pubblica Amministrazione
di concludere il procedimento entro il termine prefissato e quelle relative
alla durata massima dei procedimenti;
-
le disposizioni concernenti la dichiarazione d’inizio attività e il silenzio
assenso, salva la possibilità di individuare, con intese in sede di Conferenza
unificata di cui all’art. 8 del D. Lgs. n° 281 del 1997, casi ulteriori in cui
tali disposizioni non si applicano.
Le
regioni e gli enti locali, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di
loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate
ai privati dalle disposizioni della legge statale, ma possono prevedere livelli
ulteriori di tutela.
Attiene
alla legislazione esclusiva dello stato la disciplina del contenzioso in
materia di silenzio della Pubblica Amministrazione, rientrando nella materia
“giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale, giustizia
amministrativa” che, secondo l’art. 117 lettera L è attribuita alla
legislazione esclusiva dello Stato.
Ove
non sia espressamente disposto dalla legge in senso contrario i termini del
procedimento hanno natura ordinatoria e non perentoria.
Conseguentemente
il provvedimento non è illegittimo perché è semplicemente tardivo (così
Consiglio di Stato IV n° 2110 del 2009).
Un
caso di termine perentorio è quello stabilito dall’art. 9 della legge n° 19 del
1990 per la definizione del procedimento disciplinare in seguito a sentenza
irrevocabile di condanna del pubblico dipendente (così Consiglio di Stato VI n°
140 del 2009).
Il
rimedio avverso il silenzio della Pubblica Amministrazione è condizionato
dall’azione in giudizio di chi ne abbia interesse.
Tale
circostanza mette in evidenza la lacuna data dall’assenza nel sistema un’azione
esperibile nell’interesse pubblico, con il che l’inerzia della Pubblica
Amministrazione, nel caso in cui non possa essere fronteggiata dal titolare di
un interesse di parte, rimane senza rimedio giurisdizionale.
Sarebbe
allora necessario de iure condendo prevedere forme di azione popolare o
addirittura prevedere (per questo e per altri interventi di stimolo
dell’interesse pubblico) un Pubblico Ministero presso i Tribunali
Amministrativi.
3) LA CONFERENZA DEI SERVIZI
Anche
la disciplina della Conferenza dei Servizi contenuta nella legge n° 241 del 1990 ha lo scopo di
limitare l’inerzia della Pubblica Amministrazione.
Infatti
la Conferenza dei Servizi è sempre indetta quando l’Amministrazione procedente
deve acquisire intese, concerti, nullaosta o assensi comunque denominati di
altre Amministrazioni Pubbliche e non li ottenga, entro 30 giorni dalla
ricezione, da parte dell’Amministrazione competente, della relativa richiesta.
La
Conferenza può essere altresì indetta quando nello stesso termine è intervenuto
il dissenso di una o più Amministrazioni interpellate.
Previo
accordo tra le Amministrazioni coinvolte, la Conferenza dei Servizi è convocata
e svolta avvalendosi degli strumenti informatici disponibili, secondo i tempi e
le modalità stabilite dalle medesime Amministrazioni.
Specifiche
disposizioni, in particolare dell’art. 14-ter della legge n° 241 del 1990, attengono,
con riferimento a finalità acceleratorie, alla disciplina dei termini e delle
modalità di adozione del provvedimento finale.
Il
settimo comma dell’art. 14-ter della legge n° 241 del 1990 stabilisce che si
considera acquisito l’assenso dell’Amministrazione il cui rappresentante non
abbia espresso definitivamente la volontà dell’Amministrazione rappresentata.
Si
ponga il caso in cui il procedimento condotto in seno alla Conferenza dei
Servizi si arresti perché uno degli enti chiamati ad esprimere il parere in
seno alla Conferenza non si sia espresso e l’Amministrazione non abbia adottato
il provvedimento finale.
L’azione
che il soggetto interessato al provvedimento finale voglia esperire per la
declaratoria del silenzio inadempimento dell’Amministrazione va rivolta nei
confronti dell’Amministrazione procedente oppure dell’ente che ha omesso il
parere?
La
risposta è che l’azione va rivolta nei confronti dell’Amministrazione procedente,
perché la lesione non deriva dalla mancata espressione del parere, ma dalla
mancata adozione del provvedimento finale, che non è impedita appunto dal
mancato intervento in seno alla Conferenza dell’Amministrazione chiamata ad
esprimere il parere, mancato intervento che, come sopra precisato, è equiparato
a prestazione di assenso.
Tuttavia
è possibile che l’azione contro il silenzio sia fatta valere contro
l’Amministrazione tenuta ad esprimere un parere (magari anche in seno alla
Conferenza dei Servizi) quando l’ordinamento riconosca al privato l’interesse
autonomo al rilascio del parere e sussista una specifica istanza del privato volta
alla richiesta del parere (così TAR Veneto II n° 2941 del 2009).
È
da notare che il settimo comma dell’art. 14-ter della legge n° 241 del 1990 (“si
considera acquisito l’assenso dell’Amministrazione il cui rappresentante non
abbia espresso definitivamente la volontà dell’Amministrazione rappresentata”)
si applica anche ai pareri che devono essere resi da Amministrazioni preposte
alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico e della salute, fatta salva la necessità della valutazione
d’impatto ambientale per le opere ad essa soggette (così Consiglio di Stato VI
n° 2224 del 2008).
Diverso
dalla mancata espressione del parere è invece il caso che una delle
Amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale,
del patrimonio storico-artistico e della salute abbia espresso il dissenso.
Infatti tale dissenso determina l’applicazione della procedura aggravata
prevista dall’art. 14-quater della legge n° 241 del 1990.
4) SILENZIO DINIEGO - SILENZIO ASSENSO -
SILENZIO INADEMPIMENTO
Originariamente
per indicare il silenzio inerte della Pubblica Amministrazione, si adoperava il
termine di silenzio rifiuto, perché il silenzio veniva considerato come atto di
diniego tacito, affinché potesse essere considerato impugnabile.
A
partire dagli anni ‘60 il silenzio mero è stato considerato nella sua effettiva
natura di inadempimento dell’obbligo di provvedere, pur essendo rimasta la
tradizionale formulazione di silenzio rifiuto poi corretto nell’espressione
silenzio inadempimento.
L’azionabilità
giudiziale del silenzio inadempimento si fondava, prima dell’entrata in vigore
dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971, sull’art. 25 del Testo Unico
degli Impiegati Civili dello Stato (D.P.R. n° 3 del 1957). Così era necessario
notificare apposita diffida all’Amministrazione con l’espressa intimazione che
la mancata adozione del provvedimento richiesto avrebbe comportato il ricorso
all’Autorità Giudiziaria (così Consiglio di Stato Adunanza Plenaria n° 10 del
1978).
L’art.
20 della legge n° 241 del 1990 stabilisce il principio generale che, nei
procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi, il silenzio dell’Amministrazione competente equivale a
provvedimento di accoglimento della domanda, se la medesima Amministrazione non
comunica all’interessato nel termine previsto il provvedimento oppure non
indice una Conferenza di servizi.
È
da tenere presente che, così come non incombe all’Amministrazione alcun obbligo
di pronunciarsi sulla richiesta di riesame di una questione già definita e non
coltivata dall’interessato nelle opportune sedi giurisdizionali, analogamente
non sussiste alcun obbligo di rideterminarsi su un’istanza meramente ripetitiva
di altra precedente relativamente alla quale l’Amministrazione s’era già
pronunciata negativamente prima dell’eventuale formazione del silenzio assenso
(così TAR Veneto II n° 425 del 2008 con riferimento ad un’istanza di
istallazione di impianto di telefonia mobile).
Lo
stesso art. 20 della legge n° 241 del
1990 stabilisce che non si applica il silenzio assenso quando il silenzio è
qualificato dalla legge come silenzio diniego ovvero rigetto dell’istanza. Casi
di silenzio diniego sono:
-
il silenzio
conseguente all’istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria.
L’art. 36 terzo comma del D.P.R. n° 380 del 2001 stabilisce infatti che sulla
richiesta di permesso in sanatoria il Dirigente si pronuncia entro 60 giorni,
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata;
-
il silenzio conseguente
all’istanza di accesso ai documenti. L’art. 25 quarto comma della legge n° 241 del
1990 stabilisce che, decorsi 30 giorni dall’istanza, questa si intende respinta.
Nel
caso in cui si formi il silenzio diniego, la tutela è costituita dall’azione di
annullamento avverso il provvedimento tacito di diniego, da esperire entro 60
giorni.
Essendosi
formato un provvedimento (tacito), non vi sono infatti i presupposti per
esperire l’azione ex art. 21-bis della legge ° 1034 del 1971 che presuppone
invece una situazione di inerzia dell’Amministrazione (così TAR Sardegna II n°
408 del 2009) e non è conseguentemente applicabile il termine lungo di un anno
dalla scadenza del termine per provvedere, previsto per l’azione di cui
all’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971.
Una
pronuncia isolata (TAR Lazio II-bis n° 8 del 2008) ritiene che nel caso di
silenzio diniego debba essere esperita non l’azione impugnatoria, ma l’azione
sul silenzio inadempimento ex art. 21-bis della legge n ° 1034 del 1971, perché
le norme sul silenzio diniego debbono essere coordinate con la legge n° 241 del
1990, che ha introdotto il principio che obbliga la Pubblica Amministrazione a
rispondere in modo espresso e motivato alle richieste formulate dai privati.
Nel
caso specifico (istanza di rilascio di permesso di costruire in sanatoria) il
Tribunale ha probabilmente ritenuto preferibile ordinare all’Amministrazione di
provvedere, perché l’Amministrazione, a differenza del Tribunale, dispone delle
cognizioni tecniche per esprimersi sull’istanza.
Tuttavia
si deve rilevare che il Tribunale dispone comunque di poteri istruttori tali da
acquisire le necessarie cognizioni tecniche.
Nelle
ipotesi di silenzio diniego rimangono salvi i poteri di autotutela della
Pubblica Amministrazione avverso l’illegittimo diniego tacito.
Non
costituisce invece ipotesi di silenzio diniego l’inerzia resa a seguito della
proposizione di ricorso gerarchico.
Infatti
l’art. 20 della legge n° 1034 del 1971 non attribuisce al silenzio il valore di
provvedimento tacito, ma, alla scadenza del termine per provvedere, fa
decorrere i termini per impugnare in giudizio il provvedimento contro il quale
è stato proposto ricorso gerarchico (così Consiglio di Stato Adunanza Plenaria
n° 17 del 1989).
Conseguentemente:
-
la decisione
tardiva sul ricorso gerarchico non è illegittima in ragione della tardività;
-
l’interessato può
esperire l’azione ex art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 per obbligare
l’Amministrazione a decidere il ricorso gerarchico e tale rimedio rimane
l’unico a disposizione quando con il ricorso gerarchico sono lamentati vizi di
merito.
5) IL SILENZIO SULL’ISTANZA DI RILASCIO DEL
PERMESSO DI COSTRUIRE
Il
nono comma dell’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia stabilisce che, decorso
inutilmente il termine per l’adozione del provvedimento conclusivo, sulla
domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio rifiuto.
Ci
si pone il quesito se tale disposizione preveda una fattispecie di silenzio
inadempimento oppure di silenzio diniego.
La
giurisprudenza prevalente è pervenuta alla soluzione che si tratti di fattispecie
di silenzio inadempimento (si veda TAR Napoli III n° 6240 del 2006).
In
tale prospettiva è stato rilevato quanto segue:
-
il dato letterale
“silenzio rifiuto” è un’espressione tradizionalmente adoperata per indicare il
silenzio inadempimento, che si contrappone all’espressione “silenzio rigetto”
tradizionalmente adoperata per indicare il silenzio diniego;
-
lo stesso Testo
Unico dell’Edilizia (art. 36) ha voluto qualificare in modo diverso il silenzio
sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria ovverosia ha stabilito
che in tal caso la richiesta si intende rifiutata, con una scelta lessicale che
consente di ritenere che il rifiuto si riferisce alla richiesta di attività
provvedimentale e non al silenzio (come invece per l’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia);
-
l’art. 21 del
Testo Unico dell’Edilizia disciplina il potere sostitutivo previsto per il caso
di mancata adozione del permesso di costruire, potere sostitutivo che non
sarebbe giustificato se il procedimento si fosse comunque concluso con un
provvedimento tacito di diniego. Lo stesso art. 21 definisce il silenzio
rifiuto come mancata adozione, espressione che esclude la natura
provvedimentale;
-
nel caso di
dubbio è preferibile la qualificazione dell’inerzia come silenzio
inadempimento, perché il diniego tacito è un provvedimento finto e come tale
deve essere di stretta interpretazione.
Accertato
che l’art. 20 del Testo Unico dell’Edilizia prevede una fattispecie di silenzio
inadempimento, ci si pone la domanda se l’art. 20 della legge n° 241 del 1990
non comporti la trasformazione di tale fattispecie da silenzio inadempimento a
silenzio assenso.
Infatti
l’art. 20 della legge n° 241 del 1990 prevede l’applicazione del silenzio
assenso ai procedimenti ad istanza di parte per il rilascio di provvedimenti
amministrativi e stabilisce che il silenzio assenso non si applica ai casi in
cui la legge qualifica il silenzio dell’Amministrazione come rigetto
dell’istanza e dunque non c’è un riferimento ai casi di silenzio inadempimento.
D’altro
canto la materia dell’edilizia non è tra le materie per le quali il quarto
comma dell’art. 20 della legge n° 241 del 1990 esclude l’applicazione del
silenzio assenso.
In
realtà il problema va risolto sulla base del principio di specialità. Ogni qualvolta
la legge detta una disciplina speciale, attribuendo al comportamento inerte
della Pubblica Amministrazione uno specifico significato, ne consegue
l’esclusione della disciplina generale di cui alla legge n° 241 del 1990,
perché altrimenti la disciplina speciale non avrebbe significato.
La
legge speciale deroga alla legge generale, anche se la legge generale è
posteriore.
L’art.
20 della legge n° 241 del 1990 è posteriore al Testo Unico dell’Edilizia,
perché è stato introdotto nel testo attuale dall’art. 3 omma 6-ter del D. L. n°
35 del 2005 convertito nella legge n° 80 del 2005.
Tuttavia
tale norma intende innovare e disciplinare l’inerzia della Pubblica
Amministrazione alla quale non è attribuito alcun significato da norme
speciali.
6) L’OBBLIGO DI PROVVEDERE DELLA PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE
L’azione
per far valere in giudizio l’illegittimità del silenzio inadempimento può
essere fatta valere dal soggetto cui l’ordinamento riconosce uno specifico
interesse all’emanazione del provvedimento. Tale interesse può evidenziarsi per
esempio nel riconoscimento di poteri d’iniziativa all’attivazione del
procedimento.
Non
sussiste invece obbligo di provvedere nel caso in cui un soggetto privo di
interesse specifico presenti all’Amministrazione una denuncia.
Vengono
di seguito esaminati dei casi in cui la giurisprudenza ha affrontato la
problematica della sussistenza di un obbligo di provvedere della Pubblica
Amministrazione nei confronti di un soggetto interessato.
a)
Tizio è proprietario di un terreno classificato in zona edificabile di
espansione, per la quale il piano regolatore comunale prevede che il permesso
di costruire possa essere rilasciato solo in seguito ad approvazione di un
piano di lottizzazione.
Tizio
impugna il silenzio inadempimento del Comune, formatosi in seguito all’istanza
di variante urbanistica per mutare la destinazione di zona da “edificabile di
espansione” a “edificabile”. Egli fa presente che l’area è già urbanizzata.
Nel
caso in cui l’area è già urbanizzata non occorre che sia presentato un piano di
lottizzazione. Infatti il piano di lottizzazione non è necessario, perché è
stato già raggiunto il risultato cui è finalizzato ovverosia l’adeguata
dotazione di infrastrutture primarie e secondarie (così Consiglio di Stato IV
n° 6171 del 2007).
Ne
consegue che l’interesse di Tizio può essere soddisfatto attraverso la
presentazione di un’istanza di rilascio di permesso di costruire, senza che sia
necessaria l’approvazione della sopra indicata variante urbanistica e dunque il
ricorso proposto avverso il silenzio sull’istanza di variante è inammissibile
per carenza d’interesse (così TAR Catanzaro I n° 183 del 2007).
b)
Tizio è proprietario di un terreno che è stato classificato dal piano
regolatore adottato come zona residenziale di espansione.
La
Regione non approva la parte di piano relativa alla classificazione del terreno
di Tizio, in quanto la previsione di sviluppo non è realistica e ha invitato il
Comune a predisporre un nuovo strumento urbanistico per disciplinare tale zona.
Tizio
presenta al Comune un’istanza di riqualificazione urbanistica, essendo il
proprio terreno rimasto privo di destinazione per effetto della mancata
approvazione regionale.
Il
Comune non procede a riqualificare il terreno e Tizio impugna il silenzio
formatosi sulla propria istanza.
La
predisposizione del nuovo strumento urbanistico è obbligatoria per
l’Amministrazione Comunale, dovendo la pianificazione generale del Comune
considerare la totalità del territorio comunale (art. 7 della legge n° 1150 del
1942).
La
circostanza che solamente quelle, che nel piano adottato erano le zone di
espansione di tipo C, siano rimaste prive di disciplina urbanistica, configura
in capo ai proprietari di tali aree un interesse legittimo a che
l’Amministrazione Comunale si attivi per colmare il vuoto di disciplina
urbanistica.
La
mancata disciplina urbanistica di tali zone si risolve in una discriminazione
di disciplina tra diverse parti del territorio comunale con pregiudizio dei
proprietari delle aree rimaste prive di pianificazione.
Infatti
la disciplina di cui all’art. 9 della legge n° 1150 del 1942 relativa
all’attività edilizia in assenza di pianificazione urbanistica presuppone la
sussistenza di un obbligo attuale di procedere alla disciplina urbanistica del
territorio.
La
sussistenza di tale obbligo determina di per sé un pregiudizio economico in
relazione all’impossibilità di calcolare il valore dell’area, dato che non è
possibile prevedere in anticipo quale sarà la destinazione urbanistica
dell’area.
In
relazione a quanto sopra è stata dichiarata l’illegittimità del silenzio tenuto
dal Comune (così TAR Catanzaro I n° 185 del 2007).
c)
L’art. 128 del D. Lgs. n° 42 del 2004 riconosce la possibilità di sottoporre a
revisione il vincolo archeologico in presenza di elementi di fatto sopravvenuti
ovvero precedentemente non conosciuti o non valutati.
Dunque
l’obbligo di provvedere per l’Amministrazione sussiste solo se l’interessato
produce istanza documentata con riferimento agli elementi di fatto sopravvenuti
o precedentemente non valutati.
Se
invece l’istanza è motivata solo in modo generico, ad esempio perché
l’imposizione del vincolo è eccessiva rispetto alle emergenze archeologiche,
non sussiste l’obbligo di provvedere della Pubblica Amministrazione (così TAR
Catanzaro I n° 1104 del 2007).
d)
Nel caso in cui un soggetto sia specificamente interessato alla conclusione di
un procedimento amministrativo, ma non sia il formale destinatario del
provvedimento finale, l’eventuale azione in giudizio per la declaratoria
dell’illegittimità del silenzio inadempimento deve essere documentata con la
prova che il provvedimento finale non sia stato comunicato al destinatario.
Così
il cittadino extracomunitario che agisce in relazione al silenzio tenuto
sull’istanza di regolarizzazione deve provare che il provvedimento non sia
stato comunicato al datore di lavoro (così TAR Catanzaro I n° 2127 del 2007).
e) Il
provvedimento con cui l’Amministrazione valuta se sussistono o meno i
presupposti per l’esercizio dell’autotutela non coinvolge posizioni di
interesse legittimo del soggetto che presenta istanza di attivazione del potere
di autotutela.
L’ipotetica
configurazione di un obbligo di riesame minerebbe la certezza delle situazioni
giuridiche e di efficienza gestionale, che sono alla base dell’agire
autoritativo della Pubblica Amministrazione e dell’inoppugnabilità, dopo il
decorso di un breve termine, dei relativi atti (Così TAR Veneto II n° 299 del
2009, Consiglio di Stato IV n° 2661 del 2006).
f) Sussiste l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza
di repressione di abusi edilizi realizzati sul terreno confinante.
Infatti il ricorrente non agisce al fine di tutelare
un interesse generale di rispetto o ripristino della legalità, ma agisce per la
tutela del proprio specifico interesse di proprietario limitrofo al luogo in
cui sarebbero stati perpetrati gli abusi, con riferimento ad esempio all’asserita
violazione delle norme sulle distanze dal terreno e dagli edifici di proprietà
del ricorrente (così TAR Veneto II n° 143 del 2009, Consiglio di Stato V n.
6531 del 2003).
L’Amministrazione in tal caso è obbligata a provvedere
sull’istanza, anche esplicitando l’eventuale erronea valutazione dei
presupposti da parte del ricorrente.
g) L'obbligo di provvedere non sussiste nel caso di :
-) istanza
manifestamente infondata (così Consiglio di Stato IV n° 6181 del 2000);
-) istanza di estensione ultra partes del giudicato (così
Consiglio di Stato VI n° 4592 del 2001).
7) LA RIPROPONIBILITA’ DELL’ISTANZA DI AVVIO
DEL PROCEDIMENTO
L’ottavo
comma dell’art. 2 della legge n° 241 del 1990 stabilisce che decorsi i termini
per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio
dell’Amministrazione può essere proposto fintanto che perdura
l’inadempimento e comunque non oltre un
anno dalla scadenza del termine per provvedere e che è fatta salva la
riproponibilità dell’istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i
presupposti.
Il
presupposto di legittimazione della riproposizione dell’istanza di avvio del
procedimento è dato dalla sopravvenienza di nuovi elementi di fatto o di
diritto che qualifichino l’interesse al provvedimento in modo distinto
dall’interesse originario. Dal momento in cui si verifica la sopravvenienza
decorrono nuovamente i termini per la presentazione dell’istanza e quindi per la
conclusione del procedimento.
Nel
caso in cui non vi siano sopravvenienze la Pubblica Amministrazione, oltre
l’anno dalla scadenza del termine per provvedere, è titolare di un obbligo non
sanzionabile.
Tale
obbligo può essere sanzionato tuttavia in modo indiretto attraverso la
necessità di evitare il risarcimento del danno che sia comunque imputabile al
silenzio.
Sotto
tale profilo è da tenere presente che
l’art. 2-bis della legge n° 241 del 1990 stabilisce la prescrizione
quinquennale per l’esercizio dell’azione risarcitoria del danno cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento e che conseguentemente l’azione risarcitoria può essere proposta in
via autonoma ovverosia senza necessariamente agire per la declaratoria del
silenzio inadempimento.
Ragioni
di buon andamento dell’Amministrazione impongono comunque all’Amministrazione
di motivare le ragioni di adozione di un provvedimento adottato con un ritardo
superiore all’anno dalla scadenza del termine per provvedere.
Istituto
affine, ma diverso dalla riproposizione dell’istanza è la possibilità, ove
previsto, di attivare l’esercizio del potere sostitutivo, ad esempio il potere
sostitutivo di cui all’art. 21 del Testo Unico dell’Edilizia nel caso di
mancato rilascio del permesso di costruire.
Il
potere sostitutivo, a differenza della riproposizione dell’istanza, non
richiede la sopravvenienza di nuovi elementi, ma presuppone la semplice
situazione di inerzia.
Relativamente
alla decorrenza del termine del procedimento di repressione degli abusi edilizi
si deve precisare quanto segue.
Se
l’abuso edilizio è commesso da un terzo, la Pubblica Amministrazione ha sempre
il potere – dovere di reprimerlo, perché l’abuso edilizio costituisce un
illecito permanente.
Se
il terzo propone istanza di repressione dell’abuso edilizio e la Pubblica
Amministrazione adotta un provvedimento espresso sull’istanza, tale
provvedimento può essere impugnato con ricorso giurisdizionale nei termini di
60 giorni.
Se
il terzo propone istanza di repressione dell’abuso edilizio e la Pubblica
Amministrazione non si esprime, può essere impugnato il silenzio nei termini
previsti per il silenzio.
Il
permanere di una situazione di abuso edilizio non può invece essere considerata
una situazione nuova e dunque non può fondare il diritto (rectius interesse
legittimo) alla riproposizione dell’istanza di repressione dell’abuso edilizio.
8) LA COGNIZIONE SULLA FONDATEZZA DELL’ISTANZA
L’ottavo
comma dell’art. 2 della legge n° 241 del 1990 stabilisce che il giudice
amministrativo può conoscere della fondatezza dell’istanza.
Si
deve tenere presente, al fine della corretta comprensione della portata della
cognizione sulla fondatezza dell’istanza, che tale cognizione avviene
nell’ambito di un sindacato di legittimità e non fonda invece una giurisdizione
di merito.
Sotto
tale profilo può essere utile ricordare che dai testi riguardanti i lavori
preparatori del nuovo testo dell’ottavo comma dell’art. 2 della legge n° 241
del 1990 risulta che era stata originariamente prevista, ma poi espunta la
previsione che voleva ricomprendere il giudizio sul silenzio nell’ambito della
giurisdizione di merito.
Ne
consegue che la fondatezza dell’istanza può essere pronunciata quando
l’adozione di un provvedimento amministrativo consegue necessariamente alla
dichiarazione dell’obbligo di provvedere.
In
tal caso la pronuncia del giudice non contiene soltanto l’ordine
all’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza, ma anche, ed oltre, l’ordine
di adottare uno specifico provvedimento.
Come
esempi si possono citare:
-
il Comune ordina la demolizione di un immobile abusivo. Il destinatario
dell’ordine di demolizione non ottempera. Il Comune ha conseguentemente
l’obbligo di ordinare la demolizione coattiva, ma non provvede in tal senso.
Il
terzo, interessato alla repressione dell’abuso, impugna il silenzio
inadempimento.
Il
Tribunale Amministrativo dichiara l’illegittimità del silenzio inadempimento e (pronunciandosi
sulla fondatezza dell’istanza) ordina all’Amministrazione di disporre la demolizione
coattiva dell’immobile abusivo.
-
l’Amministrazione bandisce un concorso per l’assegnazione di alloggi.
Dopo
avere approvato la graduatoria, l’Amministrazione non assegna gli alloggi.
I
soggetti utilmente collocati in graduatoria impugnano il silenzio
dell’Amministrazione e chiedono che il giudice, valutata la fondatezza
dell’istanza, ordini all’Amministrazione di assegnare gli alloggi (e non
semplicemente di provvedere sull’istanza di assegnazione degli alloggi).
Non
può essere invece pronunciata la fondatezza dell’istanza nei seguenti casi:
-
nel caso in cui la Pubblica Amministrazione
si debba esprimere sull’istanza di apertura di una cava. In tal caso, anche se
sia già intervenuta la favorevole valutazione d’impatto ambientale, residuano comunque
una serie di valutazioni, caratterizzate da discrezionalità tecnica, che
inibiscono al giudice di pronunciarsi sulla fondatezza dell’istanza. In tale
controversia il Consiglio di Stato (VI n° 5843 del 2008) ha rilevato che la
possibilità di pronunciarsi sulla fondatezza dell'istanza non è obbligatoria e
deve ritenersi limitata ai casi in cui venga in rilievo un'attività interamente
vincolata della P.A., che non postuli accertamenti valutativi complessi.
Infatti, se, nel giudizio sul silenzio-rifiuto, si riconoscesse al giudice
amministrativo il potere di pronunciarsi in ogni caso sulla fondatezza della
pretesa fatta valere, quindi, anche nei casi di esercizio della potestà
discrezionale o nei casi in cui l'attività vincolata comporti valutazioni
complesse, si finirebbe per ammettere una completa sostituzione del giudice
alla P.A., in contrasto sia con i principi generali riguardanti i poteri del
giudice amministrativo sia con la natura semplificata del giudizio sul silenzio
e della decisione che deve definirlo e che deve essere succintamente motivata,
così come prescrive il legislatore;
-
nel caso di
inerzia rispetto all’istanza di trasferimento di un dipendente pubblico da un
ufficio ad un altro, essendo il trasferimento subordinato alle valutazioni di
compatibilità rispetto ad un corretto assetto organizzativo della Pubblica
Amministrazione (così TAR Catania III n° 169 del 2007);
-
nel caso in cui
il Comune, dopo avere stipulato un accordo di programma, rimanga inerte
rispetto all’adozione degli atti attuativi, che pur essendo dovuti, siano
comunque discrezionali nel contenuto (così Consiglio di Stato IV n° 1259 del
2008);
-
nel caso di
inerzia sull’istanza di riconoscimento di laurea straniera, occorrendo
complessi accertamenti istruttori (così TAR Lazio III Quater n° 2727 del 2008).
Non
necessariamente un atto astrattamente discrezionale inibisce il giudizio sulla
fondatezza dell’istanza.
Infatti
la Pubblica Amministrazione può essersi data delle regole tali per cui nel caso
concreto l’atto assume natura vincolata.
Così
nel caso di contributi economici i criteri che l’Amministrazione ha adottato ai
sensi dell’art. 12 della legge n° 241 del 1990 possono consentire al giudice di
valutare la fondatezza dell’istanza.
9) GIUDIZIO SUL SILENZIO: GIURISDIZIONE E ASPETTI
PROCESSUALI
Il giudizio sul silenzio ai sensi
dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 può essere istaurato solo quando
si lamenti la mancata adozione di atti che, se fossero adottati e impugnati,
sarebbero attribuiti alla giurisdizione del giudice amministrativo.
Ad esempio nel caso in cui si lamenti il
silenzio tenuto dall’Amministrazione sull’istanza volta alla restituzione di
oblazione versata in eccedenza, si tratta di controversia attinente a diritti
soggettivi, attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario.
Il difetto di giurisdizione relativo al
rapporto sostanziale non può essere infatti aggirato attraverso l’istituto del
silenzio-rifiuto, perché l’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 è norma
meramente processuale che presuppone e non fonda la giurisdizione del giudice
amministrativo, come si evince dalla possibilità di conoscere della fondatezza
della pretesa sostanziale vantata dal ricorrente (così TAR Veneto II n°874 del
2008, TAR Napoli V n° 2617 del 2007).
Nelle controversie di pubblico impiego
così come sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando siano
implicati atti amministrativi presupposti, parimenti la giurisdizione del
giudice ordinario sussiste anche quando si lamenti il silenzio su istanze volte
all’adozione di atti amministrativi presupposti, come nel caso in cui sia
lamentata la mancata adozione degli atti necessari all’istituzione di un
organico aggiuntivo di pronto soccorso, avendovi il ricorrente interesse quale
medico assegnato agli uffici di normale presidio ospedaliero e saltuariamente
chiamato all’espletamento di servizi di pronto soccorso (così TAR Veneto III n°
930 del 2010).
Nelle materie attribuite alla
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il giudizio sul silenzio ai
sensi dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 si deve ritenere comunque attivabile
(così TAR Catanzaro I n° 1768 del 2007 con riferimento all’istanza inevasa di
un’indennità relativa al rapporto di pubblico impiego militare).
In tal caso il giudizio sul silenzio è
sottoposto ai termini previsti per tale giudizio.
Se l’istanza inevasa attiene ad un
diritto soggettivo per il quale il diritto non è prescritto, se siano decorsi i
termini per far valere l’illegittimità del silenzio inadempimento, sarà
comunque possibile l’esercizio dell’azione ordinaria di accertamento del
diritto.
In giurisprudenza è stata comunque anche
prospettata la soluzione contraria a riconoscere l’esperibilità dell’azione sul
silenzio ex art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 nel caso di silenzio su
istanza volta a far valere un diritto soggettivo (così Consiglio di Stato IV n°
7057 del 2009).
In tale prospettiva è stato rilevato che
quando si sia in presenza di diritti soggettivi la procedura del silenzio
appare inutile, ben potendo il soggetto ottenere una tutela più diretta ed
immediata tramite un’azione di accertamento, senza la necessaria
intermediazione di un provvedimento formale.
Tale assunto non può essere condiviso.
Certamente il ricorrente può in tali casi esperire un’azione di accertamento,
ma, se preferisce, può esperire l’azione sul silenzio ex art. 21-bis della
legge n° 1034 del 1971.
Nel più ci sta anche il meno. L’ordine
di provvedere è qualcosa di meno e di contenuto al suo interno rispetto alla
pronuncia di accertamento del diritto.
Il significato pratico della preferenza
per l’azione di silenzio è che la soddisfazione sostanziale della pretesa
viene, nell’ambito del giudizio sul silenzio, demandata all’Amministrazione su
ordine del giudice e non direttamente al giudice.
Ciò può tradursi in una maggiore
celerità nella soddisfazione degli interessi del ricorrente, perché
l’Amministrazione, a differenza del giudice, ha già in possesso ed in
elaborazione gli elementi dell’istruttoria.
D’altro canto l’opinione che vorrebbe
precluso il giudizio sul silenzio nelle controversie attinenti a diritti
soggettivi si pone in contrasto con la volontà del legislatore di concentrare
davanti al giudice amministrativo le controversie riguardanti quelle
particolari materie (attinenti a diritti soggettivi) che sono devolute alla
cognizione del giudice amministrativo per essere connesse con l’esercizio di un
pubblico potere.
Nel
caso in cui insieme o successivamente, oltre alla declaratoria del silenzio
inadempimento sia proposta con motivi aggiunti l’impugnazione di provvedimenti
che si pronuncino espressamente (o anche implicitamente) sull’istanza, il
giudizio può e deve proseguire con il rito ordinario e dunque deve essere
ordinata la rimessione a ruolo della causa, ai fini della sua trattazione con
il rito ordinario (così TAR Catania I n° 393 del 2008).
Ai
fini della possibilità o meno della conversione del rito, quello che si rivela
essenziale è che non vengano compromessi i termini del processo ordinario
perentori a tutela del diritto di difesa, ovvero che la domanda introdotta in
giudizio possieda tutti i requisiti di sostanza e di forma per essere trattata
ai fini dell'annullamento del provvedimento impugnato, a nulla rilevando invece
che essa sia proposta, sin dall'inizio della causa, insieme ad una domanda ex
art. 21 bis della legge n° 1034 del 1971. Invero, in quest'ultimo senso, la
legge non contempla alcuna espressa comminatoria di sanzione processuale di
nullità o inammissibilità per la mera contestualità delle domande.
Anche
nel giudizio sul silenzio può rendersi necessario notificare il ricorso ai
controinteressati, pur non essendoci un atto amministrativo, impugnato, che li
individua.
Si
deve tenere presente che l’art. 15 del R.D. n° 642 del 1907 (Regolamento di
Procedura Consiglio di Stato) non fa riferimento (a differenza dell’art. 21
della legge n° 1034 del 1971) ai soli controinteressati individuati sulla base
dell’atto impugnato, ma, più in generale, ai controinteressati individuati
sulla base dell’interesse ad opporsi al ricorso.
Pertanto
va qualificato come controinteressato il soggetto che, nei giudizi di
impugnazione del silenzio inadempimento, resta direttamente pregiudicato dalla
dichiarazione dell’obbligo dell’Amministrazione di provvedere (così Consiglio
di Stato IV n° 4231 del 2005).
Possono
essere ad esempio individuati dei controinteressati nei giudizi che attengano
al silenzio inadempimento nelle seguenti fattispecie:
-
silenzio su
istanza di adozione ordinanza di demolizione di opere abusive di proprietà di
terzi controinteressati;
-
silenzio su
istanza di assegnazione di alloggio di edilizia popolare attualmente occupato
da terzi controinteressati (così TAR Lazio III Ter n° 3166 del 2007);
-
silenzio su
istanza di esproprio di un comparto edificatorio con riferimento ai terzi proprietari
che non aderiscono al comparto (così TAR Toscana I n° 3558 del 2007).
Le
conseguenze della mancata notifica del ricorso sul silenzio ai
controinteressati sono disciplinate dall’art. 15 del R.D. n° 642 del 1907 e non
dall’art. 21 della legge n° 1034 del 1971 che sul punto detta la disciplina
relativa ai soli casi di impugnazione di un atto.
Dunque
è sempre ammessa l’integrazione del contraddittorio tramite notifica del
ricorso ai controinteressati, anche se il ricorso non fosse stato notificato
all’origine a nessuno dei controinteressati.
10)
GIUDIZIO SUL
SILENZIO E RISARCIMENTO DEL DANNO
L’art.
2-bis della legge n° 241 del 1990 stabilisce espressamente che le Pubbliche
Amministrazioni e i soggetti privati preposti all’esercizio di attività
amministrative sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in
conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento.
Le
relative controversie sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in 5 anni.
Tale
norma sulla prescrizione quinquennale, introdotta dall’art. 7 della legge n° 69
del 2009, abilita l’esperibilità in via autonoma dell’azione risarcitoria per
danni da lesione di interessi legittimi, ovverosia senza necessariamente agire
per la declaratoria del silenzio inadempimento.
Diversamente
infatti il termine per l’azione risarcitoria sarebbe collegato al termine per
far valere l’illegittimità del silenzio inadempimento.
Il
progetto di nuovo codice del processo amministrativo, coerentemente con l’art.
2-bis della legge n° 241 del 1990, stabilisce espressamente che l’azione risarcitoria può essere proposta in
via autonoma.
L’attribuzione
al giudice amministrativo della cognizione in materia di risarcimento del danno
è stata riconosciuta costituzionalmente
legittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n° 204 del 2004.
In
tale sentenza si legge infatti:
“ Va premesso che la dichiarazione
di incostituzionalità non investe in alcun modo - nonostante i rimettenti ne
adducano il disposto a sostegno delle loro censure - l'art. 7 della legge n.
205 del 2000, nella parte in cui (lettera c) sostituisce l'art. 35 del d.lgs.
n. 80 del 1998: il potere riconosciuto al giudice amministrativo di disporre,
anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del
danno ingiusto non costituisce sotto alcun profilo una nuova
"materia" attribuita alla sua giurisdizione, bensì uno strumento di
tutela ulteriore, rispetto a quello classico demolitorio (e/o conformativo), da
utilizzare per rendere giustizia al cittadino nei confronti della pubblica
amministrazione.
L'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 della Costituzione, il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l'art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 della Costituzione”.
L'attribuzione di tale potere non soltanto appare conforme alla piena dignità di giudice riconosciuta dalla Costituzione al Consiglio di Stato, ma anche, e soprattutto, essa affonda le sue radici nella previsione dell'art. 24 della Costituzione, il quale, garantendo alle situazioni soggettive devolute alla giurisdizione amministrativa piena ed effettiva tutela, implica che il giudice sia munito di adeguati poteri; e certamente il superamento della regola che imponeva, ottenuta tutela davanti al giudice amministrativo, di adire il giudice ordinario, con i relativi gradi di giudizio, per vedersi riconosciuti i diritti patrimoniali consequenziali e l'eventuale risarcimento del danno (regola alla quale era ispirato anche l'art. 13 della legge 19 febbraio 1992, n. 142, che pure era di derivazione comunitaria), costituisce null'altro che attuazione del precetto di cui all'art. 24 della Costituzione”.
La
possibilità di agire con l’azione risarcitoria in via autonoma impedisce che la
Pubblica Amministrazione possa sottrarsi agli obblighi dell’eventuale pronuncia
di condanna al risarcimento dei danni, adottando un provvedimento sopravvenuto
in corso di causa.
Tale
provvedimento sopravvenuto può determinare l’improcedibilità del ricorso sul
silenzio inadempimento, ma non l’improcedibilità dell’azione risarcitoria (così
Consiglio di Stato VI n° 3592 del 2008).
Attraverso l’azione risarcitoria può
essere chiesta la reintegrazione in forma specifica nel caso di interessi di
tipo oppositivo.
Rispetto
agli interessi pretensivi invece non è possibile pensare ad una reintegrazione
in forma specifica perché il silenzio, il ritardo o l'illegittimo diniego
incidono sempre su una situazione che era e rimane insoddisfatta, per cui non
vi è nulla che possa essere reintegrato. In applicazione di tali principi è
stata affermata l'inammissibilità della domanda con cui il ricorrente ha
chiesto la condanna dell'Amministrazione all'assegnazione della rete o delle
frequenze (così Consiglio di Stato VI n° 2622 del 2008).
La
colpa della Pubblica Amministrazione consiste, nel caso di omissione di atti,
nella doverosità e possibilità del loro compimento.
Ai
fini del giudizio di colpa può essere utile la prescrizione contenuta nell’art.
23 della legge n° 69 del 2009 secondo cui ogni Pubblica Amministrazione
determina e pubblica, con cadenza annuale nel proprio sito internet o con forme
idonee i tempi medi di definizione dei procedimenti e di erogazione dei servizi
con riferimento all’esercizio finanziario precedente.
Infatti
lo scostamento rispetto alle indicazioni, e più in generale rispetto ai
regolamenti che l’Amministrazione si è posta o anche all’esperienza maturata dalla
stessa Amministrazione, induce a valutare l’omissione come mancanza di un
comportamento necessario e possibile.
Anche
nel caso di danni riconducibili a silenzio della Pubblica Amministrazione è
applicabile il principio di cui all’art. 1227 del cod. civ. secondo cui il
risarcimento non è dovuto per i danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare
usando l’ordinaria diligenza.
Così,
una volta decaduto un vincolo di inedificabilità, per il decorso del termine
quinquennale di efficacia stabilito dall'art. 2, l. 19 novembre 1968, n.
1187, se il Comune non abbia provveduto a pianificare nuovamente quell'area, il
proprietario può si pretendere il risarcimento dei danni causati dal protrarsi
dello stato di incertezza sull'impiego del bene, ma tale domanda risarcitoria
presuppone che il Comune sia rimasto inerte anche dopo apposita diffida (così
Consiglio di Stato V n° 954 del 2007).
Dunque
i principi in materia di concorso di colpa del danneggiato inducono a ritenere
che, a differenza del giudizio relativo alla declaratoria del silenzio
inadempimento, per quanto attiene invece all’esercizio dell’azione risarcitoria,
la diffida all’Amministrazione sia necessaria quando i danni che non fossero
percepibili sulla base della semplice omissione avrebbero potuto essere resi
percepibili attraverso un’istanza da presentare alla Pubblica Amministrazione.
11) IL
COMMISSARIO AD ACTA
Il secondo ed il terzo comma dell’art. 21-bis della
legge n° 1034 del 1971 stabiliscono che:
2. In caso di totale
o parziale accoglimento del ricorso di primo grado, il giudice amministrativo
ordina all'Amministrazione di provvedere di norma entro un termine non
superiore a trenta giorni. Qualora l'Amministrazione resti inadempiente oltre
il detto termine, il giudice amministrativo, su richiesta di parte, nomina un
commissario che provveda in luogo della stessa.
3. All'atto dell'insediamento il commissario,
preliminarmente all'emanazione del provvedimento da adottare in via
sostitutiva, accerta se anteriormente alla data dell'insediamento medesimo l'Amministrazione
abbia provveduto, ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice
amministrativo con la decisione prevista dal comma 2 .
La giurisprudenza ha chiarito che la
nomina del Commissario ad acta può essere fatta dal Tribunale nella stessa camera
di consiglio in cui viene accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere,
senza che debba essere accertata l’ulteriore inadempienza successiva alla
sentenza dichiarativa dell’obbligo di provvedere (così TAR Veneto II n° 2941
del 2009 e TAR Lazio II n° 7011 del 2009).
È ben vero che l'art. 21 bis, comma 2,
della legge n. 1034/1971, prevede due distinte fasi processuali: una relativa
all'ordine all'Amministrazione di provvedere ed un'altra, eventuale in caso di
inottemperanza della stessa al predetto ordine, avente ad oggetto la nomina di
un Commissario ad acta.
È anche vero però che quando il
ricorrente ne faccia esplicita richiesta, in sede di impugnazione del
silenzio-inadempimento, si debba provvedere, in caso di accoglimento di detto
ricorso, anche alla contestuale nomina del Commissario, al fine di evitare
all'interessato l'inutile aggravio di un’ ulteriore autonoma istanza
giurisdizionale.
Sotto tale profilo si deve osservare che
comunque, sulla base del terzo comma dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del
1971, al Commissario, preliminarmente all'emanazione del provvedimento da
adottare in via sostitutiva, spetta il potere di accertare se, anteriormente
alla data del proprio insediamento, l'Amministrazione abbia provveduto,
ancorché in data successiva al termine assegnato dal giudice amministrativo.
Ne consegue che non sussiste un potere
esclusivo del Tribunale Amministrativo di accertare l’inadempimento della
Pubblica Amministrazione rispetto alle statuizioni della sentenza e dunque la
norma di cui all’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 non pone ostacoli
alla nomina del Commissario contestualmente alla dichiarazione dell’obbligo di
provvedere.
I provvedimenti adottati dal Commissario
costituiscono esercizio del potere proprio dell’Amministrazione soccombente.
(così TAR Napoli I 1363 del 2009, Consiglio di Stato Adunanza Plenaria n° 1 del
2002).
Il commissario si qualifica come organo
straordinario di nomina giudiziale.
Ne consegue che, trattandosi
dell’esercizio della medesima funzione, l’Amministrazione sostituita si trova
rispetto all’attività del Commissario nella condizione di doverne accettare le
decisioni come a sé imputabili e quindi modificabili solo in sede di
autotutela.
L’Amministrazione non è pertanto legittimata
a proporre ricorso contro i provvedimenti adottati dal Commissario.
Trattandosi di sostituzione
amministrativa, il compito del Commissario è alternativo all’esercizio del
potere amministrativo rimasto incompiuto ed è rivolto alla cura dell’interese
pubblico (e di quello individuale reclamato dal ricorrente) in maniera autonoma
e senza alcun vincolo determinato dalle direttive del giudice, cui residuerà
solo il potere di verifica dell’assolvimento dell’obbligo disposto con l’ordine
di sostituzione contenuto nella decisione sul silenzio.
I
terzi possono proporre avverso gli atti del Commissario un ordinario ricorso
impugnatorio (così TAR Catania I n° 1650 del 2008).
Gli
organi ordinari dell’Amministrazione mantengono l’ordinario potere di provvedere
fino all’insediamento del Commissario ovverosia fino alla redazione del verbale
di immissione del Commissario nelle funzioni amministrative, che segna il
momento in cui il potere è trasferito in via esclusiva al Commissario.
Il
Commissario nominato ai sensi dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971 è
figura distinta dal commissario nominato in sede di ottemperanza.
Il
tratto differenziale discende dalla circostanza che in sede di ottemperanza
spetta allo stesso giudice amministrativo emanare un provvedimento che
sostituisce il provvedimento che avrebbe dovuto adottare l’Amministrazione,
nell’esercizio della giurisdizione di merito.
Il
Commissario ad acta in sede di ottemperanza è organo del giudice di
ottemperanza, così che i suoi atti non sono impugnabili nelle forme ordinarie,
ma solo con reclamo allo stesso giudice dell’ottemperanza (così TAR Catania I
n° 1650 del 2008).
Si
faccia il caso che il Comune rimanga inerte rispetto all’obbligo di reprimere
un abuso edilizio. Tizio, proprietario confinante, agisce in giudizio per
dichiarare l’obbligo dell’Amministrazione di emettere ordinanza di demolizione.
Viene nominato il Commissario ad acta
che, accertato l’ulteriore inadempimento dell’Amministrazione, emette ordinanza
di demolizione.
A tale ordinanza di demolizione non
viene data materiale esecuzione.
A
Tizio rimane il rimedio di istaurare un nuovo giudizio sul silenzio ai sensi
dell’art. 21-bis della legge n° 1034 del 1971, affinchè sia dichiarato
l’obbligo dell’Amministrazione di ordinare ai propri uffici la demolizione
coattiva dell’immobile abusivo (così Consiglio di Stato IV n° 793 del 2008).
Infatti
l’ordine di demolizione all’autore
dell’abuso e l’ordine di demolizione coattiva sono provvedimenti distinti che
hanno differenti presupposti ovverosia rispettivamente l’accertamento
dell’abuso edilizio e l’accertamento dell’inottemperanza all’ordinanza di
demolizione e dunque con l’ordinanza di demolizione emessa dal Commissario il
primo giudizio sul silenzio si è comunque concluso con la soddisfazione (sia
pure formale) degli interessi del ricorrente.
1 commento:
Ma l'ass. vernini non vede......
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