sabato 5 novembre 2011

Vincolo di inedificabilità.


Beni Ambientali - Giurisp. Civ. Cass.

Cass. Civile Sez. 1, Sentenza n. 10542 del 19/07/2002
Presidente: Grieco A. Estensore: Benini S. P.M. Palmieri R. (Conf.)
Muscas (Lauro) contro Com. Cagliari (Melis)
(Rigetta, App. Cagliari, 23 novembre 1999).
BELLEZZE NATURALI (PROTEZIONE DELLE) - VINCOLI - IN GENERE - Piano territoriale paesistico - Vincolo di inedificabilità - Natura conformativa - Sussistenza - Decadenza - Esclusione - Disciplina urbanistica - Adeguamento - Necessità.
ESPROPRIAZIONE PER PUBBLICO INTERESSE (O UTILITÀ) - OCCUPAZIONE TEMPORANEA E D'URGENZA - RISARCIMENTO DEL DANNO - Valutazione del bene - Vincolo di inedificabilità - Tutela paesaggistica - Incidenza sul valore - Sussistenza.

Il vincolo di inedificabilità contenuto in un piano territoriale paesistico, che rivela una qualità insita nel bene, sì che la proprietà su di esso è da intendere limitata fin dall'origine, è da considerare vincolo conformativo, non soggetto a decadenza, che incide sul valore del bene in sede di determinazione dell'indennizzo per un'eventuale espropriazione, tanto da rendere irrilevante la definizione, sempre ai fini della valutazione del bene, del regime imposto su di esso dalla disciplina urbanistica, che comunque è tenuta a uniformarsi alla pianificazione paesistica (Corte Cost. 13.7.1990, n. 327; Corte Cost. 9.5.1968, nn. 55 e 56).
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ANGELO GRIECO - Presidente -
Dott. ALESSANDRO CRISCUOLO - Consigliere -
Dott. UGO RICCARDO PANEBIANCO - Consigliere -
Dott. UGO VITRONE - Consigliere -
Dott. STEFANO BENINI - rel. Consigliere -
ha pronunciato la seguente

S E N T E N Z A
sul ricorso proposto da:
MUSCAS PAOLO, MUSCAS LUCIANO, MUSCAS MARIA BONARIA, in proprio e quali eredi dell'originario attore MURENU LUIGI, elettivamente domiciliati in ROMA VIA G. BAZZONI 29, presso l'avvocato FRANCESCO ASCIANO, rappresentati e difesi dall'avvocato GIOVANNI M. LAURO, giusta procura in calce al ricorso;
- ricorrente -
contro
COMUNE DI CAGLIARI;
- intimato -
e sul 2^ ricorso n^. 07571/00 proposto da:
COMUNE DI CAGLIARI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ARENULA 21, presso l'Avvocato ISABELLA LESTI QUINZIO BELARDINI, rappresentato e difeso dagli avvocati FEDERICO MELIS, GENZIANA FARCI, giusta delega a margine del controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
contro
MUSCAS PAOLO, MUSCAS LUCIANO, MUSCAS MARIA BONARIA, in proprio e quali eredi dell'originario attore MURENU LUIGI, elettivamente domiciliati in ROMA VIA G. BAZZONI 29, presso l'avvocato FRANCESCO ASCIANO, rappresentati e difesi dall'avvocato GIOVANNI M. LAURO, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 391/99 della Corte d'Appello di CAGLIARI, depositata il 23/11/99;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/03/2002 dal Consigliere Dott. Stefano BENINI;
udito per il ricorrente, l'Avvocato LAURO, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione notificato il 12.6.1986, Murenu Luigi, Muscas Paolo, Muscas Luciano e Muscas Maria Bonaria, convenivano in giudizio il Comune di Cagliari, chiedendone la condanna al risarcimento del danno per l'occupazione appropriativa di un fondo di loro proprietà, ubicato all'incrocio tra le vie Vidal e Gemelli.
Si costituiva in giudizio l'Amministrazione convenuta, contestando il fondamento della domanda, di cui chiedeva il rigetto. Avverso la sentenza di Tribunale di Cagliari, che, constatata la destinazione a verde dei suoli occupati, condannava l'amministrazione al risarcimento ricorrendo ad una valutazione basata sul criterio dell'edificabilità di fatto, proponeva appello il Comune. Con sentenza depositata il 23.11.1999, la Corte d'Appello di Cagliari, non definitivamente pronunciando, dichiarava che il terreno oggetto di procedura ablativa non era interessato da vincoli espropriativi, e disponeva con ordinanza per il prosieguo del giudizio, assumendo l'erroneità della valutazione effettuata dal c.t.u., in base alla previsione di realizzare campi da tennis con edificio di servizio. Il giudice di merito, inoltre, riteneva inapplicabile alla fattispecie il termine prescrizionale, trattandosi di occupazione del terreno in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, il che dava luogo ad illecito permanente, produttivo di un danno che sfugge all'applicabilità dei criteri del risarcimento regolamentato.
Ricorrono per Cassazione Muscas Paolo, Muscas Luciano e Muscas Maria Bonaria, in proprio e quali eredi di Murenu Luigi, affidandosi a sei motivi, al cui accoglimento si oppone con controricorso il Comune di Cagliari, che a sua volta propone ricorso incidentale fondato su due motivi, contrastato da controricorso dei ricorrenti principali. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente disporsi la riunione dei procedimenti ai sensi dell'art. 335 c.p.c., avendo essi ad oggetto ricorsi avverso la stessa sentenza.
Con il primo motivo del ricorso principale, contrassegnato da "B", Muscas Paolo, Muscas Luciano e Muscas Maria Bonaria, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 1 prot. 1 Convenzione europea dei diritti dell'uomo (e della legge di ratifica 4.8.1955 n. 485), dell'art. 6 (già art. F) del Trattato di Maastricht del 7.2.1992 (e della legge di ratifica 3.11.1992 n. 454), dell'art. 42 Cost., della l. 29.6.1939 n. 1497, in particolare degli artt. 5 e 16, chiedono che la Corte deferisca alla Corte di giustizia delle Comunità europee la questione d'interpretazione dell'art. 6 del Trattato, e dell'ivi richiamato art. 1, secondo comma, del Protocollo addizionale alla CEDU, se detta norma consenta, in relazione alla inedificabilità del suolo di loro proprietà, determinata dal Piano regolatore paesistico, l'adozione di atti di conformazione del territorio costituenti espropriazione di fatto senza indennizzo, con svuotamento sostanziale della proprietà, o se la fattispecie rientri nella seconda disposizione del primo comma, che consente l'espropriazione di pubblica utilità: nel qual caso sarebbe rinvenibile nell'ordinamento nazionale una violazione di tale ultima disposizione, che consequenzialmente dovrebbe essere disapplicata. Successivamente alla pronuncia della Corte europea, ove la norma interna non venga disapplicata, si chiede dichiararsi non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l. 1497/39, nel suo complesso e in particolare negli artt. 5 e 16 (e delle corrispondenti norme del nuovo d.lgs. 29 ottobre 1999 n. 490), oltre eventualmente agli artt. 7, secondo comma, nn. 2, 3, 4 e 41 quinquies ultimo comma, l. 17.8.1942 n. 1150, degli artt. 5, quarto comma, e 19, primo comma lett. d), e), g), l. reg. Sardegna 22.12.1989 n. 45, dell'art. 4 l. reg. Sardegna 19.5.1981 n. 17, nella parte in cui consentirebbero possa essere inserita nel piano territoriale paesistico la previsione di assoluta inedificabilità di un'area a tempo indeterminato, senza indennizzo o prospettiva espropriativa, in riferimento agli artt. 3, 10 e 42 Cost. Con il secondo motivo, indicato come "C 1^" nel ricorso, i Muscas, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 7, secondo comma, n. 3, 16, quinto comma, 17, primo comma, e 41 quinquies, l. 17.8.1942 n. 1150, 2, primo comma, l. 19.11.1978 n. 1187, 4, ultimo comma, l. 28.1.1977 n. 10, 1, quinto comma, l. 3.1.1978 n. 1, nonché vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto tuttora vigente il piano particolareggiato di Monte Urpinu, approvato con decreto 18.4.1974 n. 91, mentre il vincolo di inedificabilità, relativamente all'area dei ricorrenti, era già scaduto al momento della trasformazione del fondo.
Con il terzo motivo, indicato con "C 2^", i ricorrenti, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 7, secondo comma, nn. 2, 3, e 4, e 41 quinquies, ultimo comma, l. 17.8.1942 n. 1150, 5, quarto comma, e 19, primo comma lett. d), e), g), l. reg. Sardegna 22.12.1989 n. 45, e per il loro tramite, degli artt. 3 e 6 decreto assessoriale 20.12.1983 n. 2266/U, dell'art. 4 l. reg. Sardegna 19.5.1981 n. 17, 1, quarto e quinto comma, l. 3.1.1978 n. 1, e in subordine art. 42 n.a. al p.r.g. approvato il 19.4.1983, vizio di motivazione, censurano la sentenza per aver definito la destinazione a verde, riguardante il suolo espropriato, come vincolo conformativo dipendente dalla zonizzazione del territorio, mentre in realtà la previsione di p.r.g. anticipava la destinazione pubblicistica del suolo, imponendo un vincolo di inedificabilità preordinato ad esproprio, riconducibile alla provvista di standards necessari a dotare la zona urbanistica abitativa dei necessari servizi e infrastrutture.
Con il quarto motivo, indicato come "C 3^" in ricorso, i Muscas, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 4, 5, 7 l. 29.6.1939 n. 1497, dell'art. 2697, secondo comma, c.c., e degli artt. 115, 62 e 194 c.p.c., si dolgono che la sentenza abbia accolto acriticamente le indicazioni del c.t.u. in merito al carattere conformativo del vincolo apposto dal piano paesistico, mentre in realtà nulla risultava in merito all'effettuazione delle formalità di pubblicazione previste dall'art. 4 l. 1497/39, che sono costitutive per l'efficacia del piano, ingenerandosi il dubbio che il piano di Molentargius e Monte Urpinu abbia mai acquistato efficacia e vigenza. Inoltre, non poteva il giudice colmare le lacune istruttorie in cui è incorso il Comune di Cagliari, al fine di provare esistenza, vigenza, efficacia e contenuto del piano paesistico, ricorrendo al c.t.u., che da parte sua ha ecceduto dai limiti del mandato.
Con il quinto motivo di ricorso, indicato come "C 4^", denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 5 bis, commi 3 e 7 bis, l. 8.8.1992 n. 359, 1223, 2043 e 2056 c.c., 14 disp. prel. c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto, ai fini della valutazione del bene occupato ed irreversibilmente trasformato, della necessità del requisito dell'edificabilità legale, che invece è applicabile solo sul presupposto di applicabilità del risarcimento regolamentato, cioè in presenza di un'occupazione appropriativa, ma non in carenza della dichiarazione di pubblica utilità, situazione che dà luogo ad un illecito permanente, ed in cui non rilevano, dovendo essere il risarcimento ispirato a criteri di integralità, parametrazioni limitative.
Con il sesto motivo di ricorso, indicato come "C 5^", denunciandosi violazione e falsa applicazione degli artt. 61, 62, 194 e 276 c.p.c., la sentenza è censurata per aver accolto le argomentazioni professate dal c.t.u., il quale ha attribuito una qualificazione giuridica dell'area, mentre gli competeva la sola descrizione ed eventualmente la valutazione, ma sulla base di una qualificazione compiuta dal giudice.
Con il primo motivo del ricorso incidentale, il Comune di Cagliari, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 2947, primo comma, c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi, e inoltre violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., censura la sentenza impugnata per aver disatteso l'eccezione di prescrizione: la dichiarazione di pubblica utilità, che la Corte d'appello ha ritenuto insussistente, deriva invece dalla stessa destinazione a verde dello strumento urbanistico comunale. Inoltre, l'affermazione in ordine all'applicabilità della prescrizione quinquennale, ritenuta dal Tribunale, era da ritenere coperta da giudicato, essendo rimessa alla Corte d'appello solo la questione di valutazione delle risultanze istruttorie, circa il dies a quo della stessa.
Con il secondo motivo, il ricorrente incidentale, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 3, comma 65, l. 23.12.1996 n. 662, 2909 c.c. e 99 e 112 c.p.c., per non aver ritenuto che l'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità era coperta da giudicato, ed inoltre per aver pronunciato sull'(in)applicabilità sostanziale della norma sul risarcimento regolamentato, mentre il motivo di appello ne limitava la cognizione alla sola vigenza della norma, venuta a colmare il vuoto subentrato alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 1, comma 65, l. 28.12.1998 n. 549. Il ricorso principale è infondato, e va rigettato.
Il primo motivo muove correttamente dal carattere conformativo del vincolo paesaggistico, ma nell'intento di tradurre la negazione dell'indennizzo che ne consegue, nei termini suggestivi di una sproporzionata penalizzazione della proprietà, vi associa un regime di assoluta inedificabilità che non trova riscontro nella disciplina positiva. Il vincolo paesaggistico ha generalmente l'effetto di determinare un regime di inedificabilità relativa, che comporta l'assoggettamento alla preventiva delibazione dell'autorità proposta alla tutela del bene protetto, di ogni progetto concernente la trasformazione e l'uso del bene (artt. 149 e 151 d.lgs. 29.10.1999 n. 490). E, dunque, correttamente il giudice di merito, nel momento in cui, con la sentenza non definitiva oggetto d'impugnazione, dà una qualificazione conformativa al vincolo gravante sulla proprietà, dispone per il prosieguo del giudizio ai fini di una adeguata valutazione in termini di utilizzabilità economica dei terreni, nel quadro di una non incompatibile previsione urbanistica di zona verde a servizio della collettività.
Ciò premesso, il primo motivo non può trovare accoglimento in quanto non è consentito rivolgersi alla Corte di giustizia per ottenerne l'interpretazione di una norma del Trattato, ai sensi dell'art. 234 (ex 177) del Trattato stesso, nei termini invocati dai ricorrenti.
Il par. 2 dell'art. 6 (F) del Trattato di Maastricht, del 7.2.1992, impone all'Unione il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Questo non deve però indurre a ritenere che si sia determinata un'interposizione del diritto comunitario al rispetto, da parte degli Stati membri della comunità, della Convenzione firmata a Roma il 4.11.1950, di guisa che se ne p ossa demandare l'interpretazione, alla stregua delle norme comunitarie, alla Corte di giustizia di Lussemburgo. Il paragrafo citato impone semplicemente il rispetto, da parte delle istituzioni comunitarie, dei diritti umani, come riconosciuti dalla Convenzione: tanto che l'art. 46 (L), alla lett. d), sancisce l'applicabilità delle disposizioni del trattato istitutivo della Comunità europea relativamente alle competenze della Corte di giustizia, solo "per quanto riguarda l'attività delle istituzioni". La stessa Corte di giustizia, peraltro, chiamata a stabilire se la CEDU fosse parte integrante del diritto comunitario e se essa fosse competente a pronunciarsi nell'ambito di un rinvio pregiudiziale (art. 234), ha dichiarato di non essere competente ad esaminare la compatibilità delle norme nazionali di uno Stato membro con la CEDU allorché tali norme fuoriescano dal campo di applicazione del diritto comunitario (Corte Giustizia 29.5.1997, C-299/95, Kremzow). Le considerazioni ora esposte, del resto, rispecchiano il diverso ambito in cui agiscono le norme comunitarie, da un lato, e la CEDU, dall'altro, che costituisce fonte extra ordinem.
In conclusione, la violazione delle disposizioni della CEDU in quanto tale, e a prescindere dal principio generale di diritto comunitario che eventualmente contribuiscono a formare, non può essere oggetto di scrutinio da parte delle Corti comunitarie.
L'eventuale applicazione, diretta, dell'art. 1 prot. n. 1 della Convenzione (peraltro introdotta nel nostro ordinamento con la legge di ratifica 4.8.1955, n. 848), spetta al giudice nazionale, che ove ravvisi un contrasto della disciplina nazionale è tenuto a dare prevalenza alla norma pattizia, che sia dotata di immediata precettività rispetto al caso concreto, anche ove ciò comporti una disapplicazione della norma interna.
Non sembra che alla luce della norma citata possa ravvisarsi una violazione del diritto fondamentale della proprietà da parte della normativa urbanistica e di tutela del paesaggio. La Convenzione, a parte il potere di espropriare per cause di pubblica utilità, fa salvo il diritto degli Stati di disciplinare l'uso dei beni posseduti, in modo conforme all'interesse generale, e non sembra che ciò precluda, ove lo impongano le esigenze connesse alla protezione dei beni paesaggistici e ambientali, oltre che all'interesse ad un ordinato sviluppo del territorio, una compressione dello ius aedificandi. Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si coglie il principio di una necessaria proporzionalità tra l'interesse pubblico perseguito e la proprietà privata, ma di sicuro non si esclude che alla proprietà possa venire imposto un particolare sacrificio per la salvaguardia di interessi paesaggistici e ambientali (sulla legittimità del vincolo forestale, determinante un regime di inedificabilità relativa: Corte europea diritti dell'uomo 27.10.1994, Katte Klitsche de la Grange v. Italy). Ove si passi a valutare la conformità della disciplina dell'uso del territorio, anche se comporti vincoli di inedificabilità, ai principi della Costituzione repubblicana (e fra questi va escluso, per i motivi già detti, il richiamo all'art. 10), va ricordato come risalga proprio all'elaborazione della giurisprudenza costituzionale la teorizzazione di un tipo di vincoli, quelli conformativi della proprietà, configurabili per via di imposizioni a carattere generale e con criteri predeterminati, che riguardano intere categorie di beni, e in quanto connaturati al diritto stesso su quel bene, che nasce limitato, non sono suscettibili di indennizzo (Corte Cost. 9.5.1968, nn. 55 e 56).
Anche il secondo motivo di ricorso appare infondato. Poca importanza ha stabilire se il piano particolareggiato di Monte Urpinu sia scaduto, ove si consideri che il regime di sostanziale giuridico del suolo occupato è stato ricondotto dal giudice di merito, in base ad una ratio decidendi complessa, anche al piano territoriale paesistico di Molentargius - Monte Urpinu approvato nel 1979, all'interno del quale per relationem le limitazioni del p.r.p. sono richiamate, ma autonomamente e con ulteriore riduzione (e senza problemi di scadenza). Al piano paesistico, infatti, vanno ricondotti non solo gli effetti propri di un piano di direttive - destinato a orientare e condizionare l'azione dei soggetti pubblici investiti di competenze urbanistiche - ma anche quelli connaturati ad un piano di prescrizioni, immediatamente vincolante per i soggetti privati (Corte Cost. 13.7.1990, n. 327; sull'irrilevanza della disciplina urbanistica, pur conforme, in presenza di vincolo di inedificabilità per la tutela di testimonianze archeologiche: Cass. 3.5.2000, n. 5513).
Analoga sorte riceve il terzo motivo di doglianza. Non è ravvisabile un interesse a contestare la qualificazione del vincolo urbanistico apposto all'area, se conformativo o espropriativo, se è vero che la disciplina di inedificabilità, o, come sembra nella specie, di edificabilità funzionale alla fruizione pubblica della zona, può essere autonomamente tratta dal piano territoriale paesistico, le cui previsioni limitative all'uso della proprietà non è discutibile che siano conformative. Va osservato in proposito che la primazia assicurata dall'ordinamento al valore ambientale, fa si che le previsioni di tutela del paesaggio prevalgano su ogni altra disciplina concernente l'assetto del territorio. I piani regolatori debbono conformarsi alle indicazioni dei piani paesistici (art. 150 d.lgs. 490/99).
I beni immobili privati qualificati come bellezza naturale costituiscono, fin dall'origine, una categoria di interesse pubblico in virtù delle particolari qualità, previste dalla legge, che ad essi ineriscono; pertanto, quando l'amministrazione impone vincoli paesaggistici a tali beni, non ne modifica la qualità, ne' determina alcuna compressione del diritto su di essi, essendo connaturato a tali beni il limite che il vincolo imposto si è limitato ad evidenziare, con la conseguenza che la suddetta imposizione di vincoli da parte dell'Amministrazione non determina l'insorgenza di un diritto costituzionalmente garantito all'indennizzo, senza che, però, possa escludersi la legittimità di specifiche disposizioni prevedenti, caso per caso, l'adozione di misure intese a ristorare il pregiudizio patito dai titolari di diritti sui beni oggetto del vincolo (Cass. 19.11.1998, n. 11713; Corte Cost. 29.5.1968, n. 56;
4.7.1974, n. 202). Il vincolo panoramico non è soggetto alla disciplina della temporaneità ai sensi dell'art. 2 della legge 19.11.1968 n. 1187, che è dichiaratamente applicabile ai soli vincoli di piano regolatore, e di conseguenza non incorre nella ivi prevista decadenza nel caso di mancata approvazione del piano particolareggiato nel termine previsto, essendo correlato alla tutela del paesaggio in virtù delle caratteristiche dei beni naturalmente paesistici che sono ad esso sottoposti (Cass. 12.6.1991, n. 6649): la distinzione, contenuta nella norma citata, tra vincoli preordinati a esproprio e vincoli che comportano l'inedificabilità, è da riferire, rispettivamente, alle previsioni funzionali alla realizzazione dell'opera pubblica, con imposizioni a titolo particolare su determinate aree, e alle situazioni di temporanea neutralizzazione dello ius aedificandi in attesa di successive regolamentazioni particolareggiate, applicate in via generale a consistenti estensioni territoriali, nella logica della zonizzazione (Cass. 23.4.2001, n. 173/SU; 15.3.1999, n. 2272), sempre comunque a previsioni di piano rese nell'esercizio del potere di pianificazione. Il sistema di tutela del paesaggio, dell'ambiente, del patrimonio storico e artistico, giustificano l'affermazione di limitazioni all'uso della proprietà dei beni vincolati, senza limitarne, peraltro, la commerciabilità, o una redditività diversa da quella dello sfruttamento edilizio, alla luce dell'equilibrio costituzionale tra gli interessi in gioco, che vede alcune delle facoltà del diritto dominicale recessive di fronte alle esigenza di salvaguardia dei valori culturali ed ambientali (art. 9 Cost.), in attuazione della funzione sociale della proprietà (art. 42, secondo comma, Cost.): la questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 l. 1497/39, e dell'art. 149 d.lgs. 490/99, è da considerare manifestamente infondata.
Il quarto motivo è inammissibile. Esso mira a infirmare la validità ed efficacia del piano paesistico, ma nel suscitare dubbi sull'avvenuta pubblicazione, introduce nella controversia un elemento di assoluta novità nell'oggetto del contendere (che la parte ben avrebbe potuto contestare in fase di merito, a cominciare dal giudizio di primo grado, dopo il deposito della c.t.u.), che richiede accertamenti di fatto, non ammissibili in questa sede (Cass. 4.6.2001, n. 7521; 6.6.2000, n. 7583).
Va disatteso anche il quinto motivo. La sentenza resa dalla Corte d'appello è non definitiva, e disponendo per il prosieguo del giudizio con separata ordinanza, si è limitata ad ascrivere i suoli occupati alla condizione giuridica delle aree classificate S3, verde pubblico di quartiere: ha sconfessato il metodo di valutazione usato dal c.t.u., sulla base dei costi delle costruzioni erigende sugli stessi, e per questo ha assunto la necessità di un'adeguata stima, avendo dato atto che le norme di zona consentono la realizzazione di impianti pubblici, sportivi, ricreativi, culturali e turistici, con edifici che possono occupare una superficie di coperto pari ad 1/5 della superficie.
Ogni critica sulla procedura di valutazione pare, allo stato, prematura, dovendosi escludere, in primo luogo, che il giudice abbia adottato il requisito dell'edificabilità legale (e quindi, se è dato interpretare il timore dei ricorrenti, l'assoluta inedificabilità dei suoli occupati), in funzione di un risarcimento regolamentato, non prospettabile in una situazione di carenza di dichiarazione di pubblica utilità (c.d. "occupazione usurpativa"):
la qualificazione del vincolo a verde non può dirsi repulsiva ad ogni considerazione di redditività del bene, che non è dato cogliere nella motivazione della sentenza impugnata, anche alla luce degli ultimi esiti giurisprudenziali, che per le aree destinate a servizi ed attrezzature pubbliche lasciano spazio ad una valutazione del suolo espropriato in termini di utilizzabilità economica, in cui l'edificazione è solo lo strumento indispensabile per assicurare la funzione urbanistica assegnata alla zona in cui il suolo è compreso (Cass. 23.4.2001, n. 172/SU).
Per motivi analoghi va rigettato il sesto motivo: il giudice di merito non ha assolutamente affidato al c.t.u. il compito di qualificare l'area come edificabile o meno. Dalla sentenza impugnata si legge che l'ausiliario ha accertato la classificazione urbanistico ambientale del bene: opera ben ammissibile, siccome accertamento di fatto, e ciò sia detto anche con riguardo alla doglianza sviluppata nel quarto motivo relativamente all'esistenza e alla disciplina del p.t.p. Sulla scorta della situazione urbanistica, accertata come S3 (la valutazione alternativa fondata su un'ipotetica appartenenza dell'area a zona B5 è già stata scartata dal giudice), e della eventuale edificabilità consentita nel quadro di essa, il giudice procederà ad una più specifica valutazione.
Passando all'esame del ricorso incidentale, esso va rigettato. Riguardo al primo motivo, all'affermazione del giudice di merito, per cui, nella specie, mancherebbe una dichiarazione di pubblica utilità, l'amministrazione obietta doversi ricondurre l'istituzionale riconoscimento del fine d'interesse pubblico, alla stessa previsione di piano che ne prevedeva la destinazione a verde. La doglianza appare generica e di per sè non significativa. Non si specifica a quale strumento, fra quelli menzionati nella stessa sentenza, dovrebbe essere assegnato questo valore, tenendo conto che le previsioni del p.r.g. hanno di regola carattere generale e programmatico, e non sono idonee ad avviare la procedura di acquisizione dei suoli; l'eventuale identificazione della dichiarazione di pubblica utilità con il p.r.p. di Monte Urpinu, approvato con decreto 18.4.1974 n. 91, pare contraddetta dall'assegnazione del carattere conformativo al vincolo, che peraltro la Corte d'appello parrebbe far discendere dalla rettifica apportata allo stesso p.r.p. dal p.t.p. di Molentargius - Monte Urpinu. Sotto l'altro profilo della doglianza, esercitando il sindacato sulla decorrenza della prescrizione, come ritenuta dal giudice di primo grado, la Corte d'appello ha correttamente escluso che il termine fosse mai iniziato a decorrere, atteso il carattere permanente dell'illecito, rappresentato da un'occupazione non assistita da dichiarazione di pubblica utilità: va in proposito osservato che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, fissato dall'art. 112 c.p.c., non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base all'applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dall'istante, con il limite attinente al divieto del giudice stesso di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nei fatti di causa e che si basi su elementi di fatto non ritualmente acquisiti in giudizio come oggetto del contraddittorio e non tenuti in alcun conto dal primo giudice (Cass. 12.10.1999, n. 11455; 23.3.1999, n. 2730). Anche il secondo motivo del ricorso incidentale è infondato. Non è riconoscibile un giudicato sull'esistenza della dichiarazione di pubblica utilità, atteso che per effetto dell'appello, particolarmente riguardo al decorso della prescrizione, era rimasto complessivamente in discussione il diritto al risarcimento del danno per l'occupazione illegittima, per il quale il giudice di primo grado aveva erroneamente trascurato di verificare il carattere istantaneo o permanente dell'illecito da cui esso scaturiva. Nessun elemento, inoltre, può cogliersi dalla sentenza di primo grado per ritenere un passaggio in giudicato del decisum circa "il criterio" di risarcimento, nel senso di una liquidazione decurtata del danno, che avrebbe imposto al giudice d'appello l'applicazione del sopravvenuto art. 5 bis, comma 7 bis, l. 359/92. Per le stesse ragioni poco sopra esposte, il giudice di appello, attribuita ai fatti una diversa qualificazione giuridica, applica la disciplina giuridica che reputa consequenziale.
La reciproca soccombenza induce alla compensazione delle spese del giudizio.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta.

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