mercoledì 5 giugno 2013

Delitto al femminile


http://www.cinziatani.it/2011/01/06/delitto-al-femminile/


Assassine
Le donne assassine rappresentano il 10-15% della totalità degli assassini. Il numero maggiore (12-15%) viene raggiunto negli Stati Uniti.
Come spiegare questi dati?
1) Mancanza di studi.


La maggior parte degli studi e dei dati prodotti sul delitto si sono sempre concentrati sugli uomini, poiché ci si basava sull’idea che i maschi sono più aggressivi, violenti e portati alla criminalità delle donne. I reati di violenza non sembrano essere facilmente conciliabili con il concetto tradizionale di comportamento femminile. L’assassinio e altri atti violenti contro le persone fisiche sembrano in completa antitesi con il delicato, riservato, protettivo ruolo del sesso femminile.
Inoltre gran parte degli studiosi e dei ricercatori e criminologi erano uomini. ed è sempre stato difficile per loro ammettere l’esistenza del crimine femminile. L’uomo nasce dalla donna e l’idea che la donna possa essere il nemico fa paura. L’omicidio femminile veniva considerato un’aberrazione. Per molti si trattava di atti involontari. Le donne venivano viste come essseri vulnerabili, incapaci di malvagità. La violenza era un universo esclusivamente maschile: le donne e i bambini ne erano le vittime. Tradizionalmente le donne non sono educate all’aggressività bensì alla passività. Tutti i condizionamenti sociali fanno sì che le donne passino raramente all’atto delittuoso. Per molto tempo si è ritenuto che la donna fosse incapace di uccidere. Si teorizzava una sorta di differenza biologica tra i due sessi. Il corpo femminile, predisposto per accogliere e dare la vita, non poteva essere in grado di toglierla.



E’ chiaro quindi che molte interpretazioni sulla violenza femminile siano state condizionate dalle proiezioni di come si pensava fossero le donne più che su quello che erano e si è poco studiato quanto i cambiamenti nelle condizioni sociali abbiano modificato la personalità femminile.



2) Il numero oscuro.



I delitti commessi dagli uomini sono più numerosi di quelli commessi dalle donne ma i dati si basano sui casi risolti. Chi sa quante sono state veramente le assassine? Molte donne uccidevano con il veleno (come cuoche avevano molte possibilità di avvelenare le loro vittime senza essere scoperte) e per molto tempo non è stato possibile distinguere i sintomi da avvelenamento da quelli di una grave intossicazione. Inoltre in caso di concorso in omicidio la partecipazione della donna sarebbe più facilmente mascherata dal ruolo più nascosto e anche dall’atteggiamento di omertà e di protezione dell’uomo nei suoi confronti. Ecco perché si è parlato (Pollack) di criminalità femminile mascherata o dietro le quinte, poiché un comportamento femminile frequente è quello del favoreggiamento e dell’istigazione, della manipolazione, un modo di non esporsi in prima persona. Secondo lui le donne commettono lo stesso numero di delitti degli uomini ma vengono raramente scoperti, riportati o perseguiti. Inoltre donne che nascondono le mestruazioni o fingono l’orgasmo possono mentire a proposito di ogni cosa, e sono vendicative. Secondo lui è la cavalleria maschile che impedisce alle donne di essere perseguite dalla legge.



Ma se anche è esistita una tale cavalleria oggi non esiste più. Le donne sono perseguite e ricevono le stesse condanne degli uomini.



3) La diversa posizione della donna nella società.



La donna è stata meno attiva dell’uomo nelle attività relazionali, ha avuto un ruolo più appartato, questo ha comportato una sua minore partecipazione al comportamento delittuoso perché meno esposta agli stimoli ambientali.



Con questo però non si può dire che aumentando la partecipazione della donna alla vita sociale ci sia stato un conseguente aumento della criminalità femminile. Alcuni studiosi ritengono che il più largo accesso al lavoro non ha cambiato radicalmente il tradizionale ruolo dipendente della donna. E’ quindi cambiata la posizione sociale della donna mentre il ruolo e la funzione specifica della donna in famiglia e nei riguardi dell’uomo è rimasta immutata.



4) La diversa struttura biopsichica dei due sessi.



L’inferiorità fisica media delle donne avrebbe come effetto psicologico quello di farle astenere da azioni violente.



Secondo l’interpretazione psicologica, la donna tende a tradurre in senso nevrotico, con ansia, depressione, instabilità emotiva, la conflittualità provocata da fattori disturbanti ambientali laddove l’uomo risolve la tensione con l’azione. La parità sociale permette oggi alle donne di difendersi e di scaricare l’aggressività con sistemi che erano di esclusiva competenza maschile.



La fragilità predisponeva la donna all’astuzia. La sua forza stava nella finzione e nel calcolo. Ciò ne faceva una assassina con premeditazione che metteva in opera i suoi misfatti dietro la maschera dell’innocenza, dell’amore e a volte perfino della pietà.



Il padre della moderna criminologia, Cesare Lombroso, ha studiato il crimine femminile nel suo saggio “La donna delinquente, la prostituta e la donna normale” (1893). Ha diviso le donne in buone e cattive. E ha cercato di individuare i segnali fisici della “cattiveria” femminile. Secondo lui la donna criminale ha caratteristiche fisiche che la avvicinano agli uomini più che alle donne normali. Sono le caratteristiche della “delinquente nata”.



La donna è irrimediabilmente inferiore all’uomo sotto tutti gli aspetti, da quello biologico a quello creativo ecc. La donna è addirittura un uomo arrestato nel suo sviluppo. Elenca infinite mostruosità antropometriche e fisiognomiche sia pure cautelandosi con la riserva che le anomalie, specie quelle esterne, erano più difficili da riconoscere finché perduravano nella donna la bellezza della gioventù e la freschezza delle carni.



Afferma però: “Un modo poi di diminuire alcuni delitti speciali alle donne, delitti di suggestione o di passione, come l’avvelenamento del marito, sarebbe quello di facilitare il divorzio per incompatibilità di carattere, di cambiare le leggi sul matrimonio che mettono la donna in una situazione di troppo grande inferiorità rispetto all’uomo”.



Se la donna è inferiore all’uomo in tutti gli aspetti della vita allora però dev’esserlo anche sul terreno del crimine. La donna criminale riproduce alcuni tratti maschili e a questi caratteri virili vengono ad aggiungersi spesso “le qualità peggiori della psicologia femminile: l’inclinazione alla vendetta, l’astuzia, la crudeltà, la passione per il vestiario, la menzogna, il rancore, l’inganno, formando così frequentemente dei tipi di una malvagità che sembra toccare l’estremo”. Riteneva che le donne fossero più crudeli dell’uomo e portate ad essere vendicative, feroci e fredde. La donna omicida gioca con l’idea di disporre della sua vittima per ragioni che le sembrano giuste ma possono non esserlo per un uomo. Se decide di uccidere è capace di giustificare l’atto a se stessa e inventare una propria moralità adatta a quel particolare caso.



Secondo Lombroso la prostituzione che nel passato era prerogativa esclusivamente femminile era l’equivalente sostitutivo del delitto, il modo che la donna aveva di esprimere il suo disadattamento alla vita di relazione. Nel maschio le difficoltà ambientali avrebbero favorito il comportamento delittuoso e nella donna la prostituzione.



A proposito dell’insanità mentale, nella seconda metà dell’ottocento si cominciò a isolare due fattori: le condizioni che predispongono la persona all’insanità e l’evento che la fa precipitare. Nel 1867 si tenne un congresso internazionale in cui venne redatta una lista delle condizioni predisponenti alla insanità mentale: grande differenza d’età fra i genitori, influenza sessuale, ambiente, convulsioni o emozioni della madre durante la gestazione, epilessia, altri disturbi nervosi, gravidanza, lattazione, periodo mestruale, età critica, pubertà, intemperanza, malattie veneree, onanismo. Fra le cause scatenanti: epilessia, disordini mestruali, gravidanza, parto, lattazione, febbri, ferite alla testa o alla spina, superlavoro.



Da rilevare come ogni fase della vita della donna era elencata sia nelle cause di insanità sia nelle condizioni che scatenano l’evento. Insomma, la donna era quasi naturalmente insana e quindi facilmente una criminale. Il rapporto tra utero e cervello era considerato strettissimo. Le mestruazioni potevano portare ad impulsi verso la cleptomania, la piromania, il furto, l’omicidio, il suicidio.



La sindrome premestruale che comporta depressione, irritazione e ostilità nella donna contribuisce secondo gli ultimi studi a rendere la donna più aggressiva. Lombroso dava credito a questa teoria. Nel 1945 uno studio rilevò che l’84% dei crimini violenti commessi dalle donne sono commessi durante il periodo premestruale e mestruale. (Vito e Holmes). Ma le ricerche contemporanee non trovano alcun supporto a tale teoria.



5) Evoluzione del delitto femminile



Negli ultimi anni sono stati moltissimi gli studi di stampo femminista sul delitto commesso dalle donne. L’accento è posto soprattutto sull’ambiente sociale e familiare della donna e sulle condizioni sociali e familiari svantaggiate che l’avrebbero portata al delitto.



Solo recentemente certi criminologi hanno cominciato a considerare l’importanza dell’influenza delle strutture sociali sul crimine femminile. E fra queste influenze il denaro sembra essere il movente fondamentale degli omicidi commessi dalle donne.



I delitti commessi dalle donne cambiano con l’emancipazione femminile. L’omicidio non è più l’unica via di fuga per la donna che vuole sfuggire a un padre autoritario, non è più costretta dalla famiglia a sposare uno sconosciuto. Per la donna l’omicidio non è più l’unica via d’uscita a una situazione altrimenti insostenibile.



Le motivazioni ed i percorsi del delitto femminile erano diversi fino a cinquant’anni fa, oggi somigliano sempre più a quelli maschili. Le donne uccidono ormai per gli stessi motivi per cui una volta uccidevano gli uomini: rabbia, violenza, aggressività, impulso, sconfitta, rivalità, ambizione, invidia ecc. E con gli stessi mezzi: pistola, coltello.



Gli infanticidi sono commessi soprattutto da donne e i crimini contro i genitori vedono uomini e donne alla pari. I delitti all’interno della famiglia sono compiuti per un terzo dalle donne.



Nel 1970, dopo la liberazione femminile, c’è stato un aumento nei delitti commessi dalle donne. Forse non si è trattato di un vero aumento ma di una maggiore visibilità. Eppure Freda Adler nel suo famoso libro del 1975 “Sister in crime” sostiene che la rapida crescita della criminalità femminile altro non è che il lato negativo della liberazione. Le donne liberate si affretterebbero ad emulare gli uomini. In realtà non c’è stato un grande aumento in assoluto se si considerano i dati totali relativi alla criminalità, la percentuale degli omicidi femminili rispetto alla totalità degli omicidi era ed è rimasta del dieci-quindici per cento. Sono aumentati però gli arresti, questo vuol dire non tanto che sono aumentati i crimini delle donne quanto l’atteggiamento della giustizia verso questi crimini.



Le bambine e le ragazzine, le girl gangs, sembrano addirittura decise a recuperare il tempo perduto e lo svantaggio accumulato rispetto ai coetanei maschi violenti. Le statistiche dell’Fbi rivelano che la criminalità giovanile fino ai 15 anni è in diminuzione ovunque e specialmente i crimini violenti come omicidi e stupri calano. Dovunque meno che tra le femmine dove gli arresti per omicidio sono addirittura raddoppiati dal 1990.



“Se le donne sono in grado di fare il marine o il pilota di bombardiere, non si vede perché non debbano sentirsi autorizzate a uccidere nella vita civile come i maschi”, ha commentato con sarcasmo Camille Paglia, autrice antifemminista. “Non sono piccole Thelma e Louise, sono figlie dello stesso abbandono famigliare, degli stessi ghetti morali e urbani che partoriscono i baby killers maschi”.



Perché uccidono



Gli uomini sono sempre stati più violenti, più impulsivi, hanno ucciso in accessi di rabbia, in risse, in raptus alcolici, nel corso di rapine, per commissione. Hanno ucciso per ambizione, rivalità, perdite al gioco, dopo una sconfitta.



I motivi dei delitti commessi dalle donne, a parte quello economico, sono state di solito le grandi passioni: odio, amore, vendetta. Per amore di un uomo uccidevano il padre tiranno o il marito, per vendetta e quindi odio uccidevano l’amante che le tradiva o le abbandonava. Ormai i moventi delle assassine sono svariati come quellii degli assassini: denaro, vendetta, potere, eseguire degli ordini, delusione, piacere, autodifesa, psicopatia, depravazione, rivalità.



Le donne che uccidevano trovavano soluzioni estreme a problemi con cui migliaia di donne convivevano in maniera pacifica ogni giorno.



Rudyard Kipling ha scritto che la femmina di ogni specie animale è più implacabile del maschio. Ed è vero. L’omicidio femminile veniva pensato a lungo e la donna non rinunciava mai, neppure conoscendo perfettamente i rischi che correva.



La donna era più lucida, determinata nel delitto degli uomini.



Il movente più consueto nel passato e soprattutto nel passato inglese, durante l’epoca vittoriana, era il desiderio di liberarsi del proprio marito. Erano mariti traditori, possessivi, gelosi che tenevano le proprie mogli nell’assoluta dipendenza anche economica. Succedeva che finalmente la donna incontrava l’amore e per quell’amore era disposta a fare di tutto, anche ad uccidere. La donna era pienamente consapevole delle conseguenze penali (la morte) nel caso fosse stata scoperta ma non rinunciava, la passione era più forte di qualsiasi altra cosa. Preferiva l’idea della morte all’idea della rinuncia.



Ma ci sono sempre state anche donne che hanno ucciso per il denaro o per il semplice desiderio di sperimentare il proprio potere di vita e di morte. Se le donne che uccidevano i mariti o i figli erano definite mostri, queste donne erano considerate uomini. I loro erano delitti maschili.



Il racconto della vita delle donne omicide dimostra che gran parte di loro non sono affatto donne comuni, alcune hanno avuto un’infanzia drammatica, altre hanno ucciso perché provocate per lungo tempo, alcune soffrivano di sdoppiamento della personalità, altre erano succubi di passioni indomabili, altre ancora erano spinte da una naturale propensione all’omicidio. In ogni caso non si è mai trattato di donne comuni.



Le donne hanno sempre avuto meno interesse per certe passioni che hanno mosso gli uomini come l’ambizione, il gioco, l’alcol, la sconfitta. Quindi moventi di questo genere sono meno comuni nei delitti femminili. Sicuramente invece lo sono la cupidigia e l’amore, la gelosia e la vendetta. In genere però le donne commettono delitti per cupidigia insieme all’uomo, sia esso il marito o l’amante.



Come uccidono



Le donne, non essendo forti come gli uomini, storicamente hanno dovuto ricorrere a maniere di uccidere più originali e tortuose. E l’arma storicamente preferita era il veleno, quindi l’omicidio durava molto tempo, veniva centellinato.



L’arsenico è un elemento chimico diffuso in natura, di solito associato a minerali metalliferi. Ha fatto innumerevoli vittime, forse anche Napoleone Bonaparte, che può essere rimasto fatalmente avvelenato dall’arsenico dietro la tappezzeria del soggiorno della sua prigione a Sant’Elena. Ma è anche stato variamente utilizzato in medicina e in altri campi. Per esempio, nel sedicesimo secolo, la regina Elisabetta I usava l’arsenico come cosmetico, applicandoselo sul viso per renderlo candido. Nel 1786 il dottor T. Fowler riferiva dei giovamenti procurati dall’arsenico in casi di febbri e cefalee sporadiche. La Medicina di Fowler nell’ottocento era dunque un tonico popolare. Il vocabolo greco da cui deriva arsenico, arsenikon, significa potente. Molti uomini pensavano che l’arsenico aumentasse la loro virilità come una specie di afrodisiaco, motivo per il quale cominciavano ad assumerlo ma poiché si tratta di una sostanza che dà dipendenza non potevano più staccarsene.



L’arsenico fino al 1840 non poté essere rivelato da alcun esame. Per esempio in Inghilterra, tra il 1850 e il 1890, 41 donne sono state giustiziate di cui 26 si sono servite del veleno, arsenico nella maggior parte dei casi, per uccidere le loro vittime.



L’arsenico veniva mescolato alla minestra o versato nel caffè o nel cioccolato. Impossibile distinguerne il gusto se la bevanda è calda, possibile riconoscerlo invece in qualcosa di freddo. In grandi dosi uccide in qualche ora ma i dolori sono terribili. La vittima soffre di mal di stomaco orribili e di diarrea, è piegato in due da intense convulsioni e a volte gli si paralizzano gli arti. Poiché questi sintomi si potevano verificare anche in diverse malattie era difficile diagnosticare un avvelenamento da arsenico. Oggi l’arsenico non si trova più così facilmente eccettuato in certi pesticidi. Si usa invece il cianuro.



Inoltre le donne criminali tendevano ad usare, nel consumare un omicidio, una minor forza fisica. Difficilmente la donna affrontava direttamente la sua vittima, in uno scontro alla pari. Per esempio erano molto meno inclini dei maschi omicidi a colpire ripetutamente la vittima per provocarne la morte. Se prima uccidevano con il veleno oggi usano anche la pistola, ma raramente il coltello o le mani.



Nel 1651 viveva a Trastevere, all’altezza dell’attuale ponte Mazzini, Giulia Toffana. Conoscva la formula della “manna di San Nicola”, detta anche “acqua Toffana “, un veleno potentissimo. Giulia, assistita da complici addestrate, liberava le mogli dalla tirannia di insopportabili mariti. In pochi anni oltre seicento uomini furono eliminati e la strage fu definita “il sordo macello dei mariti”. Il veleno, era inodore, insapore e trasparente come l’acqua. La pozione, mescolata al vino o alla minestra, provocava vomito, poi febbri altissime, econduceva a morte nel giro di quindici-venti giorni. Giulia avviò alla medesima arte la figlia, Girolama Spera, che superò la madre in perizia e riservatezza. Il segreto, però, non durò a lungo. Il 5 luglio del 1659, La Toffana, sua figlia e le loro complici furono impiccate. Venne poi approvata una legge che richiedeva la registrazione per l’uso e la vendita dei veleni.



Marie Madelaine d’Aubray, Marchesa di Brinvilliers (1630-1676) A 21 sposa il vecchio Antoine Gobelin che la trascura e la tradisce. Dopo aver avuto molti amanti si innamora di Gaudin de Sainte-Croix, un ufficiale di cavalleria privo di scrupoli. Il padre di Marie lo fa chiudere in carcere dove Gaudin apprende l’arte dei veleni. Quando esce di prigione insegna la nuova “scienza” a Marie che la usa per uccidere il padre nel loro castello di Offémont e diversi malati dell’Ospedale Maggiore. Fa poi uccidere due fratelli e una sorella dal suo lacchè La Chaussés. Prova ad avvelenare anche il marito senza riuscirci perché viene salvato da Sainte-Croix che comincia a temere la terribile amante. Sainte-Croix muore nell’esplosione del suo laboratorio. La polizia trova una confessione scritta da Sainte-Croix nel timore di venire anche lui ucciso da Marie. Marie riesce a fuggire e si nasconde in un convento a Liegi. Fu arrestata dal luogotenente Desgrais, braccio destro di Nicolas La Reynie, che può esssere considerato il primo investigatore della storia. Si travestì da abate, riuscì a sedurre Marie e a farla uscire dal convento.



Il processo, nel 1675, appassionò la Francia. Fu letta una confessione che Desgrais aveva trovato nella stanza di Marie in cui lei confessava di aver avuto come amanti perfino i fratelli. Fu condannata a morte. Torturata e impiccata nella pubblica piazza. Marie, in una lunga camicia, con un grosso crocifisso in mano e il cero della penitenza, dovette fare pubblica ammenda. Dopo la sua morte fu oggetto di un vero e proprio culto tra il popolino di Parigi. Molti la ritenevano una santa e correva voce che avesse fatto dei miracoli.



Lo scandalo dei veleni La marchesa di Brinvilliers ha il triste privilegio di aver inaugurato la lista delle avvelenatrici. Al tempo di Luigi XIV, l’impiego dei veleni avveniva quasi senza rischio. Le conoscenze della medicina legale non consentivano di rilevarne le tracce nelle vittime. A quel tempo, quando non c’era divorzio e l’adulterio poteva relegare le donne in convento, le pozioni a base di arsenico erano usate per sbarazzarsi di un marito scomodo e per uccidere un parente da cui ereditare. Per questo i veleni venivano chiamati “polverine di successione”. Questo accadeva in una società in cui sembrava regnare l’ordine e la devozione religiosa. Con la Brinvilliers il secolo di Luigi XIV aveva avuto una dilettante di talento, con Catherine Deshayes, detta la Voisin, scoprì una vera professionista dell’arte di avvelenare. Nata nel 1640 fu bruciata viva nel 1680. Si specializzò nella confezione e vendita del veleno. Con lei e le sue complici l’arte del veneficio raggiunse un livello di perfezione mai eguagliato. L’arsenico poteva essere somministrato attraverso la biancheria intima della vittima, nelle bevande, ma si cospargevano addirittura gli animali domestici con la micidiale polvere.



Il luogotenente Desgrais, sospettando un traffico di veleni, finse di volersi sbarazzare di una moglie noiosa e ottenne una fiala di arsenico. Arrestò subito la donna che gliela aveva data e tramite lei scoprì una grande quantità di case in cui, sotto la copertura della chiromanzia, molte donne si dedicavano a preparare veleni. Il re fece aprire la Camera Ardente: una corte suprema presieduta dal luogotenente La Reynie il cui giudizio era inappellabile e che aveva la facoltà di mandare velocemente i criminali sul rogo.



La camera ardente restò in funzione dal 1679 al 1682 e mandò al rogo 36 persone. Il re lasciò fare a La reynie finchè non venne coinvolta anche la sua favorita, Madame de Montespan che voleva uccidere una rivale. Il re fece chiudere la camera ardente e distruggere gli archivi.



Chi uccidono



Le donne uccidono soprattutto membri della loro famiglia, spesso uomini che hanno abusato di loro per anni. Circa il 90% delle donne in carcere per omicidio hanno ucciso uomini per difendersi da loro.



Se l’amore e la famiglia erano l’ambito in cui la donna viveva e si affermava, amore e famiglia erano anche le sfere in cui si scatenavano le passioni omicide.



Le donne uccidevano più frequentemente mariti, amanti e parenti mentre gli uomini assassinavano per lo più amici intimi ed estranei. La maggior parte dei crimini commessi da donne erano crimini di letto. Avevano la loro origine, in molti casi, nell’amore e nell’odio.



Le donne uccidevano i mariti violenti. Mariti che spesso non avevano scelto e che avevano sposato giovanissime. Mariti che le trascuravano, che passavano la giornata fuori casa, che pretendevano da loro fedeltà e abnegazione, cura e consolazione. Mariti che potevano picchiarle per futili motivi o per raptus alcolici. Queste donne assassine venivano considerate pazze, malate, isteriche o vittime di qualche tensione mestruale. Era raro che ci si chiedesse quale fosse il reale movente del loro delitto. Questi uomini, dopo essere stati avvelenati potevano morire benedicendo la moglie, non sospettando minimamente di lei. Era più facile comprendere il delitto che una donna commetteva per gelosia, per rivalità verso un’altra donna che il delitto contro un uomo che la vessava.



Le donne uccidevano i mariti loro imposti dalla famiglia quando amavano un altro uomo. Poteva essere un precedente fidanzato, magari povero e per questo non accettato dalla famiglia, ma poteva anche essere qualcuno conosciuto dopo il matrimonio. Qualcuno in cui riponevano le loro aspettative d’amore e di comunione. La legge che deprivava le donne di ogni diritto e le rendeva dipendenti dagli uomini le rendeva anche soggette alla tirannia. La donna era stata creata per essere una moglie e una madre e per rendere la casa comoda e felice. Ogni donna che prendeva l’iniziativa sia per votare che per uccidere il marito era “innaturale”. Una donna che viveva una vita indipendente senza la direzione e il controllo di un uomo era considerata un’anomalia sociale. I suoi sacrifici nei confronti del marito e dei figli non venivano neppure riconosciuti, erano espressioni naturali del suo istinto di madre e di moglie.



Una giornalista americana che seguiva i processi per omicidio scrisse che certi matrimoni inscindibili portavano necessariamente al delitto come unica via d’uscita.



Per quanto riguarda la vendetta nei confronti dell’amante, scrive Vincenzo Mellusi: “L’abbandono non rappresenta soltanto la perdita dell’oggetto amato, ma il disprezzo dell’amante e l’umiliazione agli occhi di tutti. La morte della persona amata è per la fanciulla meno crudele dell’abbandono, che riassume tutte le sofferenze morali; perdita dell’amore, disprezzo della sua bellezza, preferenza accordata a una rivale, umiliazione pubblica, resa più dolorosa per il timore di vedere la rivale ridere del proprio dolore”.



E riguardo all’amore George Sand scrisse che la donna che non trova nel matrimonio l’amore cui ha diritto, può cercarlo altrove. Commenta Mellusi: “La donna passionale, che apprende il matrimonio come un episodio dolorante dell’amore, non può votarsi alla fedeltà coniugale che è una semplice convenzione utilitaria… Il dono continuo del suo corpo, senza affetto e senza desiderio, la stanca e la nausea. E da quel momento può benissimo concepire e provare il grande amore, passando dalla castità ignorante all’unione carnale per amore”.



Per una donna delusa nella sua passione l’omicidio appare come un prezzo modesto da pagare per la sua libertà poiché la passione coinvolge la sua intera vita. Senza di essa, lei pensa, la vita sarebbe una lunga morte. Gli uomini sono meno coinvolti dall’amore. Possono andare in pezzi se le cose vanno male ma di solito si riprendono abbastanza presto e il delitto come via d’uscita non rientra nei loro calcoli.



Nel caso di Florence Maybrick, di origine americana, imputata nel 1889 per l’omicidio del marito, avere uno dei migliori avvocati dell’epoca, Sir Charles Russell, non servì. Il giudice, James Fitzjames Stephen, inflessibile verso le donne adultere, disse ai giurati che l’imputata era una donna spregevole che durante la malattia del marito non aveva pensato che a scrivere lettere all’amante. “Tutto questo dovete considerare quando vi chiederete se questa donna è colpevole o no!” I giurati non sapevano però che il giudice soffriva di gravi disturbi nervosi dovuti a una paralisi che l’aveva colpito tre anni prima e non potevano immaginare che poco tempo dopo il processo sarebbe stato ricoverato in manicomio. Non diedero troppa importanza neppure alla confusione mentale che dimostrò per tutto il processo e ai frequenti vuoti di memoria. Il loro verdetto fu di colpevolezza. Florence Maybrick doveva essere impiccata. Fortunatamente la stampa, l’opinione pubblica e il governo americano si mossero per chiedere la commutazione della pena che infine fu accordata nonostante la disapprovazione della regina Vittoria.



Assunta Vassallo proveniva da una delle famiglie più in vista di San Cataldo e il processo per uxoricidio che la vide imputata suscitò grandissimo interesse. La donna aveva un amante di cui era perdutamente innamorata, quando capì che l’uomo stava per lasciarla pensò che se fosse stata libera avrebbe potuto riconquistarlo. Il marito morì per avvelenamento da stricnina nel 1948. Assunta fu condannata a vent’anni di reclusione.



Alcune donne si sono fatte aiutare dall’amante per uccidere il marito. Un gran numero di assassine concepiscono il crimine da sole e colpiscono in segretezza. Non si fidano di nessuno. Spesso considerano l’uomo debole e senza carattere, inutile per la loro implacabile decisione. Sono pochissimi i casi di donne convinte a uccidere da un partner maschile. Esistono molti più casi di uomini convinti da una donna a commettere un delitto. Questo accade soprattutto nei crimini di passione.



Alma Rattenbury, nata in Canada nel 1897, donna molto attraente, sposa un facoltoso architetto molto più vecchio di lei che presto cade in depressione, smette di lavorare e soprattutto di avere rapporti con la moglie. Smette anche di guidare e quindi la coppia deve trovarsi un autista. Questi è un giovanotto di diciannove anni, George, che si innamora, riamato, di Alma. Uccidono il marito. Lei che è ricca riesce ad avere un bravissimo avvocato che la fa assolvere, lui ne ha uno d’ufficio e viene condannato a morte. Una volta uscita dalla prigione, lei non riesce a sopportare l’idea che il suo amante venga ucciso e si uccide a sua volta accoltellandosi sei volte al petto. Quindi non viene a sapere che il giorno dopo anche al suo amante sarà accordata la grazia. Moltissimi anni dopo lui viene arrestato in un bagno pubblico mentre adesca un ragazzino. Tanto amore, tanta passione al punto da morirne e per una persona per cui non ne valeva assolutamente la pena!



Gigliola Guerinoni, ex infermiera, che ha lasciato il marito (il metronotte Andrea Barillari) e ha due figli (Alex e Fabio) arriva a Cairo Montenotte (Savona) e ha una relazione con il contabile Ettori Geri, di 27 anni più grande. Lui abbandona per lei moglie e figli e investe la sua liquidazione in una galleria d’arte per lei. Dalla loro unione nasce Soraya Raffaella. Poi il ménage si allarga a Pino Giustini, arredatore, che va a vivere con loro. Diventa l’amante di Gigliola che nel 1974 lo sposa. Lui vende tutte le sue proprietà per lei e nel 1986 muore misteriosamente. Si sospetta mancata assistenza o cure sbagliate da parte di lei. Viene sostituito da Cesare Brin, proprietario di un’antica farmacia, consigliere comunale, molto ricco. Lascia moglie e figli e vorrebbe sposare Ggliola. Soraya lo odia. Cesare Brin a causa di alcune operazioni sbagliate è rovinato. Scompare il 12 agosto 1987 e viene ritrovato morto in una discarica. E’ stato ucciso a martellate. Bruciato. Al processo Gigliola si difende. Non aveva moventi per uccidere Cesare Brin ormai sul lastrico. Neppure la gelosia per un suo eventuale ritorno dalla moglie, se mai era lui ad essere geloso. Non ha distrutto famiglie. Erano già rovinate e lei ha solo dato rifugio a uomini ormai soli.



Viene assolta per l’omicidio del marito Pino Giustini, a suo parere l’unico uomo che abbia mai amato, e condannata a 26 anni per l’omicidio di Cesare Brin. Secondo l’accusa lei avrebbe ucciso a martellate l’uomo e Ettore Geri l’avrebbe aiutata. Lui viene condannato a 15 anni.



La donna tradita può uccidere la rivale e in questo caso lo fa con premeditazione. Può minacciare l’amante solo per spaventarlo e poi essere trascinata dall’impeto del momento.



Rina Fort: Il 30 novembre 1946 una ventata di orrore allo stato puro attraversò l’Italia intera: la notizia di un orrendo massacro scoperto in un appartamento del civico 40 di via San Gregorio, nella zona di porta Venezia, a Milano. Una donna e i suoi tre figli – un maschietto di sette anni, una bambina di cinque e un altro piccolo di dieci mesi – erano stati trovati ammazzati a colpi di spranga: la moglie e i tre figli di Pippo Ricciardi, commerciante dagli affari incerti, di origine catanese, da qualche tempo immigrato nel capoluogo lombardo. Dall’appartamento, letteralmente a soqquadro e invaso dal sangue, mancano solo pochi gioielli. Il movente non può essere stato la rapina. E allora perché commettere un simile scempio? Perché uccidere anche tre bambini? Perché finire a sprangate un piccolino ancora sul seggiolone, ancora incapace di parlare, che non sarebbe certamente stato neppure uno scomodo testimone?In poche ore il caso è risolto: la belva di via San Gregorio è Caterina Fort, 31 anni, già commessa in un negozio del Ricciardi, da tempo sua amante. Interrogata per 18 ore la donna confessa. Poi ritratta parzialmente le sue ammissioni. Conferma di aver ucciso la moglie di Pippo Ricciardi, Franca Pappalardo, ma nega di aver infierito sui bambini. Per anni, nonostante la condanna all’ergastolo in tre gradi di giudizio, Caterina Fort, detta Rina, sosterrà la sua versione: in quella casa non era entrata da sola, ma con un fantomatico “Carmelo”, amico di Pippo Ricciardi. Dal momento che gli affari andavano male, lei e Pippo avevano deciso di inscenare una rapina, tanto per tacitare i creditori. Alla rapina doveva partecipare anche “Carmelo”. Era stato proprio “Carmelo” a drogarla con una sigaretta forse oppiata. Lei aveva perso la testa e con una spranga – che sempre “Carmelo” le aveva infilato in mano – aveva ucciso la Pappalardo. Ma i bambini no: lei, Rina Fort, non li aveva uccisi.



Fin sul letto di morte, avvenuta nel 1988, Rina Fort ha negato di aver massacrato quelle innocenti creature. La macabra storia di Rina Fort e del suo delitto colpì moltissimo l’opinione pubblica di quegli anni. Molti sottolinearono il contrasto tra il suo delitto ed un altro, avvenuto nello stesso periodo, che appassionò i lettori: quello commesso dalla contessa Pia Bellentani che assassinò l’amante. A Rina Fort fu sempre negata l’incapacità di intendere e di volere, cioè la seminfermità mentale. La stessa fu invece concessa alla Bellentani. Anche la giustizia ha sempre avuto una sua interpretazione di classe: Rina Fort era una poveraccia, la contessa, ovviamente, no!



Maria Pia Bellentani: Per dimenticare Rina Fort, la belva di via San Gregorio, ci vuole il delitto opposto e speculare di villa d’Este. In via San Gregorio l’Italia degli immigrati, dei magliari, della gente senza nome che ha cambiato città, casa, famiglia, che si è fatta largo con le unghie, con i denti nel mercato nero, nella prostituzione, nel furto, per la quale un poliziotto è un signore e il questore un dio inavvicinabile; e a villa d’Este, sul lago di Como, il luogo di ritrovo mondano della Lombardia ricca, di quel “quarto partito” di cui parla De Gasperi che porta il denaro in Svizzera, invita a cena il questore e il prefetto. Non l’alta finanza e la grande industria, intendiamoci, non le grandi famiglie che hanno nella Bastogi e in altre finanziarie il luogo dei loro potere corporato, non i Pirelli, i Faina, i Marinotti, ma il “generone” comasco, gli industrialotti come Carlo Sacchi che ha sposato la ex ballerina tedesca Lilian Willinger e si è presa come amante la contessa Bellentani, moglie di un Bellentani che sarà aristocratico, ma produce salumi. Offesa dalle villanie e dalle volgarità dell’amante la Bellentani aspetta, il 15 settembre 1948, una serata di gala nel fasto di villa d’Este, si avvicina al Sacchi, pronuncia poche parole e lo fulmina con una rivoltellata. La nota snobistica è data dal barone Maurizio de Rotschild che si trova per caso a un tavolo poco distante: è fra i primi a capire che c’è stato un delitto e mormora, senza muoversi: “Ah, ces italiens”. C’è anche Robert Bouyerure, un francese che ha sposato la sarta Biki, della famiglia proprietaria del Corriere della Sera. Il suo infallibile istinto di classe lo fa vvicinare alla Bellentani che ha tentato di uccidersi, a prenderla per un braccio dicendole: “Andiamo madame, è chiaro che si tratta di un incidente”. Non si tratta di un incidente. Ci sarà un processo, ma i cronisti del Corriere della Sera dovranno trattare con cautela e rispetto e la Corte d’Assise accetterà per buona la seminfermità mentale, la condannerà a soli dieci anni poi ridotti a sette. (Giorgio Bocca – Storia della Repubblica italiana – Rizzoli, 1981)



Il figlio



Nel passato, non essendoci una maniera per regolare le nascite, molte donne si trovavano a partorire bambini di cui non potevano occuparsi. A volte erano state violentate o avevano avuto amanti segreti. Era facile nascondere la gravidanza nei vestiti ampi e lunghi. L’infanticidio era molto diffuso. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna queste donne venivano condannate a morte, di solito bruciate vive, perchè il loro non era solo un delitto contro l’uomo, ma uccidere un bambino prima del battesimo era un delitto contro la religione. Era anche il delitto femminile punito più severamente. Oggi l’infanticidio suscita maggiore orrore, allora poteva essere un atto disperato per sopravvivere.



La morte di bambini al di sotto dei 12 anni è nella gran parte dei casi dovuta a maltrattamenti, violenze e abusi da parte di un familiare.



Andreoli: L’infanticidio è sempre stato ritenuto impossibile: le donne che lo commettevano dovevano essere certamente folli, malate di mente, non-donne. Come se soltanto la perdita della femminilità e dell’istinto materno potesse giustificare un delitto del genere. Oggi le donne che abbandonano nei cassonetti i loro bambini sono giudicate dagli psichiatri tutt’altro che pazze e se lo fanno i motivi sono: perché il bambino dava fastidio, perché non era previsto, perché avrebbe complicato la vita.



Ma può esserci anche il desiderio di annullare la sofferenza, il male che una mente turbata dalla depressione può ipotizzare per il figlio: il tentativo di allontanarlo da una previsione catastrofica dell’esistenza.



Sono quasi sempre le madri a uccidere i figli minori e quasi sempre bambini che hanno meno di un anno.



Famoso in Francia, il caso di Denise Labbè che nel 1954 uccise la sua bambina affogandola nella tinozza per lavare i panni. Denise era bella, giovane, corteggiata. Il padre morì affogato in uno stagno. Fu messa incinta da un giovane medico che la abbandonò. Lavorò per mantenere la bambina che amava molto. Poi si innamorò di un bell’ufficiale con strane idee sulla supercoppia e sui sacrifici che una donna deve fare per dimostrare al suo uomo che lo ama. Lui le chiese di sacrificare la bambina. Dopo vari tentativi andati a vuoto Denise eseguì il compito. Affogò la bambina che adorava nella tinozza per lavare i panni. La stessa tinozza fu portata in tribunale durante il processo per dimostrare quale fosse l’agonia di un bambino affogato in quel modo. L’assassina fu condannata all’ergastolo e Jacques Algarron a vent’anni di lavori forzati. Al processo ci si chiese se era più colpevole una giovane ignorante e ingenua che uccide la propria figlia per compiacere l’amante o l’uomo colto e seduttore che pretende il sacrificio supremo pena l’abbandono?



A commettere un infanticidio è:



· La donna malata di mente: ha problemi a controllare la propria aggressività forse originata da una relazione disturbata con i suoi genitori.



· La madre gelosa: donna gelosa del proprio bambino e delle attenzioni che riceve dagli altri. Questa donna può essere stata trascurata nell’infanzia.



· La madre vendicativa: La donna, non potendo punire il marito che considera onnipotente e dal quale si sente tradita o trascurata, si rifà sui soggetti più deboli della famiglia: uccide i figli, elimina la stirpe dell’uomo.



Magari la donna si sente l’elemento debole in famiglia, magari ha poca voce in capitolo nell’economia della casa, sviluppa un senso di inferiorità, non si sente capita dal marito. Ne derivano depressioni, ansia, insonnia, in genere c’è una patologia mentale di fondo che esplode in un contesto particolare.



· La madre depressa: un terzo delle madri che uccidono i figli hanno problemi di depressione. Il delitto diventa un’allargata forma di suicidio “uccido chi amo di più, il mio bambino” In alcuni casi, la crisi depressiva può essere conseguente al parto. Crisi di pianto improvvise, irritabilità, ansia e sentimenti di sconforto e sfiducia sono i sintomi della cosiddetta ‘post-partum blues’,. Una sorta di tristezza che colpisce 7-8 neomamme su 10 dopo la nascita del loro bambino e che dura pochi giorni. Soltanto nel 10-20% dei casi, si tratta di vera depressione post-partum, e solo in “una o 2 donne su 1.000″ sfocia in psicosi, quella che può portare la madre a “identificare il proprio bimbo con il demonio, a fargli male e perfino a ucciderlo”.



Negli Stati Uniti e in alcuni Paesi del Nord Europa esistono nelle strutture pubbliche i «gruppi di sostegno» per le madri in «babyblues» e proliferano gli studi e le ricerche in questo campo. In Italia di depressione postpartum si parla probabilmente solo in occasione degli ultimi sconvolgenti fatti di cronaca quando la sindrome giunge a livelli devastanti, perché sottovalutata o mal curata.



· La madre che non voleva un figlio: sono i casi dei bambini uccisi alla nascita. Di solito queste madri hanno dovuto nascondere la gravidanza e poi il parto. Frequentemente invece di uccidere il bambino lo gettano nei rifiuti. Lasciando alla sorte la sua sopravvivenza.



· La madre misericordiosa: La madre che vuole proteggere il figlio dalla sofferenza.



· Donne che soffrono della Sindrome di Munchausen. Una sindrome scoperta nel 1977 e chiamata così in riferimento al barone di Munchausen, grande mentitore. Nella gran parte dei casi chi ne soffre produce su se stessa sintomi di malattie per poi farsi curare. E’ un modo per attirare l’attenzione. In alcuni casi la donna procura sintomi e malattie nel figlio per poi portarlo all’ospedale (per esempio avvelenandolo lentamente). Sono madri affezionate, amorevoli, che non danno segni di eventuali psicosi. Questi casi sono in aumento. Le donne che ne soffrono nascondono sentimenti di solitudine, inadeguatezza, incompetenza e bassa stima di sé.



· La madre abusatrice: in un raptus di rabbia uccide il proprio figlio. La donna picchia i figli con oggetti o strumenti, spegne sigarette sui loro corpi. Talvolta, turbata dagli urli o dai pianti del bambino lo uccide, salvo poi dire: “Non volevo farlo.” Sono madri in genere provenienti da famiglie con problemi, a volte loro stesse sono state picchiate, spesso sono dedite all’alcolismo o all’abuso di droghe. E’ uno dei pochi casi in cui l’omicidio e la violenza può anche avere un movente sessuale. E può accadere che gli atti sessuali perpetrati su bambini servano a soddisfare gli istinti perversi del proprio compagno.



Alcune donne che uccidono i propri figli e poi si suicidano odiano il marito e, incapaci di attaccarlo, uccidono i bambini per vendicarsi di lui.



Il suicidio allargato è diverso dall’omicidio compiuto dalla madre che per una serie di ragioni ammazza la creatura e non ha nessuna intenzione di sopprimere se stessa. Nel suicidio allargato si decide di andarsene da un mondo considerato ostile, insopportabile, cattivo e non si vuole che le persone più care proprio in quel mondo rimangano, senza più la protezione che si cercava di dare loro.



L’uccisione volontaria di un figlio costituisce un infanticidio solo se la vittima è un neonato, altrimenti si tratta di figlicidio.



La legge impone una netta distinzione tra i due reati, anche nelle motivazioni e nelle conseguenze penali: il primo è punito con la reclusione dai 4 ai 12 anni, il secondo con l’ergastolo.



Nel primo caso, infatti, se la madre ha ucciso mentre soffriva di depressione postpartum si considera che abbia già sofferto nell’uccidere i suoi figli e che non è pericolosa se non ha altri figli.



Fatti del genere sono sempre accaduti, si commenta. Ma adesso presentano caratteristiche diverse, e gli infanticidi sono assai diminuiti; mentre sono recentemente aumentate le uccisioni di bambini non neonati da parte delle madri. Com’è possibile arrivare ad uccidere la propria creatura? Per quanto condannato, la comprensione del gesto dipende dalla tolleranza verso le motivazioni che variamente gli si riconoscono. Se il neonato era malformato, eliminarlo era una pratica tollerata in epoca romana e greca, e altrettanto fino al XX secolo in Cina se si trattava di femmina figlia cadetta di poveri. Altrimenti il delitto veniva punito come il peggiore assassinio, in quanto rivolto contro una vittima inerme.



E’ innegabile che le condizioni in cui le donne oggi possono vivere la maternità siano assai migliorate rispetto al passato, su tanti livelli: medico e assistenziale, culturale e materiale, legislativo. Ma i delitti di questi giorni ci impongono di vedere che anche fuori dalle condizioni di svantaggio riconosciute dai codici (l’illegittimità, la miseria, l’abbandono), una madre può arrivare ad uccidere il proprio bambino. Anche se ha un marito e una bella casa. Perché è impazzita, si conclude allora.



La malattia mentale è l’altra causa storicamente più spesso invocata in questi casi. Ma bisogna distinguere. Una cosa è domandare se quell’individuo fosse affetto da una patologia o almeno da alterazione mentale mentre commetteva (irresponsabilmente) un reato, qualunque esso sia. Altra cosa è riconoscere che all’origine di un particolare tipo di crimine vi sia una generale condizione normalmente irta di difficoltà e rischi, che in casi estremi conducono all’omicidio e talvolta al suicidio.



C’è un nesso tra il rifiuto violento della maternità e il bisogno vissuto da ogni donna di sentirsi sostenuta quando si prende cura di un bambino piccolo. La legge lo recepisce; sottolinea la stretta relazione tra esigenze (e sofferenze) psicologiche materne e il contesto familiare e sociale in cui esse non trovano adeguata risposta né ascolto: mancanza o insufficienza di sostegni, «solitudine e incomunicabilità … all’interno della famiglia», ecco le ragioni per le quali il codice attenua molto la colpa dell’infanticida.



Nella stessa distinzione tra infanticidio materno e figlicidio indifferentemente genitoriale – il primo attenuante, l’altro aggravante dell’omicidio comune – è passata la considerazione che divenendo madre la donna vive una particolare fragilità, la quale può addirittura sfociare nella depressione post-partum o, come dicevano gli alienisti ottocenteschi, nella mania puerperale.



L’infanticida di oggi non corrisponde più alla madre crudele, o indifferente o sciagurata. Al contrario, è una madre devota, esageratamente devota, semmai. Dopo il delitto, il comportamento materno giudicato normale o ammirevole appare inquietante: si dedicava molto ai propri bambini, li amava molto, ci stava sempre insieme e soprattutto da sola; mentre il marito è sempre al lavoro, coltiva altri interessi, frequenta persone e luoghi altri più dei figli e della casa. Si ammette che per una donna che tanto si preoccupa dei suoi figli, il carico della maternità possa diventare insostenibile.



E’ nell’evento del parto e nei giorni immediatamente successivi che si esaurisce la speciale condizione riconosciuta dal codice. Il che dipende dall’epoca in cui la norma ebbe origine, quando il parto era molto rischioso per i nascituri ma anche per le donne, e così è stato per secoli fino a qualche decennio fa.

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