giovedì 26 settembre 2013

GIUSTIZIABILITA’ DEL SILENZIO-INADEMPIMENTO DELLA P.A.:

                       GIUSTIZIABILITA’ DEL SILENZIO-INADEMPIMENTO DELLA P.A.:
QUESTIONI RISOLTE E PROBLEMATICHE EMERGENTI

Per oltre un secolo e fino all’approvazione della legge di riforma del nostro processo amministrativo n. 205/2000, questo era disciplinato, a livello formale, come un giudizio di mera impugnazione di atti, ossia come un mezzo di tutela giuridica strutturato ed organizzato in funzione di un unico risultato possibile: l’annullamento di un atto amministrativo denunciato come illegittimo.
Sul piano del diritto formale, il cittadino interessato a che la pubblica amministrazione decidesse se adottare o meno un provvedimento incidente favorevolmente nella sua sfera giuridica non disponeva di strumenti per costringere la P.A., rimasta inerte, ad assumere una determinazione satisfattiva del suo interesse o anche solo di rifiuto a provvedere in quel senso che potesse essere impugnata. La giurisdizione amministrativa era concepita in funzione della sola demolizione di un provvedimento lesivo dell’interesse del cittadino e non della condanna della P.A. ad emettere provvedimenti positivi o negativi che fossero.
Però, dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana divenne lampante come l’assenza di correttivi al modello processuale d’impugnazione puro si ponesse in dissidio con gli artt. 24 e 113 Cost.: individuandosi nell’annullamento della determinazione espressa dalla pubblica amministrazione l’unico petitum processuale deducibile dal ricorrente, si negava tutela al cittadino quante volte, a fronte di un suo interesse non alla rimozione ma all’assunzione di quella determinazione, l’amministrazione rimanesse inattiva.
Il primo problema che storicamente si è posto in relazione all’inerzia della P.A. è, dunque, quello dalla possibilità di reazione giuridica del cittadino contro di essa.
La risposta data dal Legislatore nella prospettiva di colmare la lacuna non fu organica e risultò complessivamente inadeguata. Nell’intento di lasciare inalterata la fisionomia del processo amministrativo come puro giudizio d’impugnazione, si scelse di risolvere il problema con soluzioni settoriali, prevedendosi l’introduzione del meccanismo del c.d. silenzio significativo per alcune tipologie di procedimenti amministrativi dove si riteneva fosse più opportuno fornire al privato un mezzo di tutela contro l’inazione della P.A. (col silenzio significativo la legge attribuisce alla inazione della P.A. protratta oltre un tempo predeterminato il valore legale tipico di un atto amministrativo di rigetto o di accoglimento dell’istanza del privato diretta a provocare l’adozione di un provvedimento).
Ma, al di là dei casi per i quali era stato introdotto il marchingegno del finto atto formatosi col silenzio, restava la generalità delle fattispecie procedimentali dove non solo il silenzio non assumeva alcun significato legale tipico, ma, addirittura, non essendo previsti termini per l’adozione dei provvedimenti conclusivi dei procedimenti, non operava neppure la condizione essenziale per la formazione di un silenzio amministrativo ipoteticamente censurabile innanzi agli organi di tutela.
La giustizia amministrativa, così come tratteggiata dal diritto positivo fino agli albori di questo millennio, postulava la necessità di un “simulacro di provvedimento” nei casi in cui non era previsto il meccanismo del silenzio significativo.
Come sempre, ad accollarsi il compito di “tappare la falla” lasciata aperta dal Legislatore fu la giurisprudenza, la quale dovette ideare un sistema che consentisse la formazione di un silenzio significativo – nella specie del silenzio-rigetto – per la generalità dei casi in cui la legge nessun significato attribuiva all’inazione della P.A.
Fu, così, escogitata dai giudici – prima attraverso l’estensione analogica dell’art.5 del T.U.L.C.P. del 1934 e, dopo l’abrogazione di questo ad opera dell’art.6 del D.P.R.1199/71, dell’art. 25 del T.U. Imp. Civ. St. del 1957 – una procedura di messa in mora della P.A. da parte del cittadino che consentisse di fissare alla P.A. un termine entro cui avrebbe dovuto emettere il provvedimento, termine che, se trascorso inutilmente, avrebbe condotto a qualificare l’inerzia della P.A. come silenzio-rigetto, impugnabile dall’interessato alla stregua di un atto espresso di diniego di emettere il provvedimento chiesto dal privato (cfr. Cons.St., Ad. Plen., n.10/1978).
L’interessato al provvedimento, in caso di inerzia amministrativa protratta oltre un ragionevole tempo, aveva l’onere di diffidare la pubblica amministrazione a provvedere entro un termine non minore di centoventi giorni ed attendere ulteriori sessanta giorni dopo lo scadere del termine per poter impugnare il silenzio dell’amministrazione.
Trattavasi – com’è facile comprendere – di un escamotage che richiedeva tempi di attesa tutt’altro che contenuti per il cittadino e che la legge 7 agosto 1990 n. 241 ha cercato di archiviare con l’art.2, cioè con la previsione di un termine di massima entro cui la P.A., indipendentemente da ogni iniziativa di diffida, è tenuta a concludere qualunque procedimento amministrativo con un provvedimento espresso.
Sennonché, proprio quella giurisprudenza che si era adoperata nella direzione di superare l’impasse dalla non giustiziabilità dell’inerzia non significativa ha finito col disconoscere alla nuova norma di principio il ruolo di strumento di semplificazione del meccanismo di formazione del comportamento omissivo giustiziabile della P.A..
I giudici amministrativi, infatti, salvo eccezioni, hanno seguitato a ritenere necessaria la messa in mora della pubblica amministrazione, malgrado l’art.2 della L.241/1990 avesse incontrovertibilmente introdotto nell’ordinamento amministrativo, con riferimento all’obbligo della P.A. di rispettare un termine per adottare i provvedimenti, il principio del dies interpellat pro nomine.
Le ragioni di tale sopravvissuta necessità sono state individuate in varie esigenze d’ordine giuridico; però, considerata l’evidente opinabilità delle argomentazioni portate a sostegno dell’esigenza, è lecito sospettare che si volesse, in realtà, dissimulare dietro tali ragioni la solita motivazione di fondo: il bisogno di creare la condizione perché, attraverso la diffida, si formasse il finto provvedimento di diniego da fare oggetto dell’impugnazione.
A testimoniare la fragilità delle giustificazioni ufficialmente addotte per sostenere la perdurante necessità della diffida sta il fatto che il Consiglio di Stato, ancora dopo sette anni dall’entrata in vigore della L.241/1990, sostenesse che: << L’art. 2, L.. 7 agosto 1990 n. 241 non ha modificato la disciplina applicabile per l’adizione del giudice amministrativo a seguito del silenzio-inadempimento serbato dalla p.a. sulle istanze del privato, sia perche´ l’azione giurisdizionale non puo` essere esperita prima che non sia prospettata, mediante la notificazione di un atto di diffida e messa in mora, la possibilita` per la p.a. di esser convenuta in un giudizio amministrativo, sia perche´ la predetta notificazione non e` una mera formalita`, essendo invece preordinata a fissare il termine entro cui la p.a. medesima puo` evitare l’insorgenza della lite giudiziaria ed a provvedere (anche in senso conforme alla pretesa del privato), con cio` svolgendo un’indubbia funzione deflattiva dei processi amministrativi>> (Cons. St., Sez. V, 15 settembre 1997 n. 980).
Per la verità, se si riporta l’avvertita esigenza di mantenere in vita la previa diffida alla sua sospettata ragione vera, bisogna riconoscere che l’art.2 della L.241/90 – fino alla modifica apportavi dalla L.15/2005 – si limitava ad attribuire al comportamento silente della P.A. il significato di un fatto idoneo ad integrare la violazione di un obbligo della stessa P.A. di adottare un provvedimento entro un termine prestabilito. L’art.2 qualificava il silenzio come inadempimento puro e semplice, ma nessuna altra norma prevedeva la possibilità d’impugnare quel contegno omissivo in via autonoma. Cosicché, restava inalterato il problema avvertito dalla giurisprudenza di trasformare, mediante la previa diffida, quella che è una mera inadempienza in un comportamento idoneo ad assumere il significato equivalente al provvedimento di rigetto impugnabile.
L’art.2 della legge del ’90, che pure voleva rappresentare un passo in avanti sul piano della tutela del cittadino contro le inefficienze e gli intollerabili commoda della pubblica amministrazione, di fatto non riuscì a portare ad un superamento dello storico ostacolo all’automaticità della formazione del silenzio impugnabile e questo essenzialmente perché la sua introduzione nell’ordinamento non fu affiancata da norme processuali di completamento del sistema che consentissero di attuare il suo intento riformatore.
Alla mancanza sarebbe stato posto rimedio solo a distanza di dieci anni dall’approvazione della L.241/1990 e, precisamente, con la L.205/2000 che, nel riformare la L.1034/1971 istitutiva dei tribunali amministrativi regionali, vi ha introdotto un art.21 – bis, a tenore del quale:
<<1. I ricorsi avverso il silenzio dell'amministrazione sono decisi in camera di consiglio, con sentenza succintamente motivata, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta. Nel caso che il collegio abbia disposto un'istruttoria, il ricorso è deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata per gli adempimenti istruttori. La decisione è appellabile entro trenta giorni dalla notificazione o, in mancanza, entro novanta giorni dalla comunicazione della pubblicazione. Nel giudizio d'appello si seguono le stesse regole.
2. In caso di totale o parziale accoglimento del ricorso di primo grado, il giudice amministrativo ordina all'amministrazione di provvedere di norma entro un termine non superiore a trenta giorni. Qualora l'amministrazione resti inadempiente oltre il detto termine, il giudice amministrativo, su richiesta di parte, nomina un commissario che provveda in luogo della stessa.
3. (…)>>.
Con l’art.21-bis il Legislatore ha fornito una risposta chiara ed inequivocabile all’annoso problema della giustiziabilità del silenzio-inadempimento, poiché ha concepito l’impugnabilità del contegno inattivo della P.A. prescindendo da qualunque significato simil-provvedimentale ad esso attribuibile e ponendo, quale condizione dell’azione giurisdizionale contro l’inerzia, la sola illegittimità della stessa in rapporto al puro e semplice trascorrere del termine per provvedere stabilito dall’art.2 L.241/1990.
Inequivocabilmente l’art. 21-bis fornisce argomenti decisivi per superare l’esigenza della previa diffida, visto che questa si è storicamente posta (a prescindere delle varie motivazioni addotte in prosieguo di tempo dai giudici amministrativi) essenzialmente per rispondere alla necessità di trasformare in un fatto convenzionalmente assimilabile ad un atto espresso impugnabile un comportamento inattivo della P.A. sicuramente antidoveroso, ma sconosciuto alla normazione positiva come possibile causa pretendi di un’autonoma azione processuale del cittadino.
Nondimeno, a sgombrare definitivamente il campo da ogni residuo dubbio sulla non necessità della previa diffida è intervenuto il Legislatore del 2005 con la legge n.15, che ha introdotto un comma 4-bis nel corpo dell’art.2 della L.241/1990, secondo il quale: << Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini di cui ai commi 2 o 3, il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai predetti commi 2 o 3. E' fatta salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ove ne ricorrano i presupposti.>>
Ma, risolti i due problemi dell’impugnabilità ex se del silenzio-inadempimento e della automaticità della sua formazione, ne restava in piedi un terzo che la giurisprudenza pregressa aveva affrontato ma risolto in modo incerto: di quali poteri dispone il giudice quando decide del ricorso sul silenzio proposto ex art.21-bis della L.1034/ 71? Deve limitarsi ad accertare l’an dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere, ingiungendo alla P.A. di pronunciare un qualsiasi provvedimento entro il termine massimo dei trenta giorni da lui stabilito? Oppure deve addentrarsi anche nel quomodo dell’adempimento dell’obbligo di provvedere violato, stabilendo il contenuto del provvedimento che la P.A. è tenuta ad adottare nello stesso termine?
A questo riguardo, l’art.21-bis L.1034/71 non fornisce indicazioni univoche, dato che la frase, ivi contenuta, “il giudice amministrativo ordina all'amministrazione di provvedere” è adattabile all’una e all’altra soluzione.
Il Consiglio di Stato, nel 1999 – ossia un anno prima dell’ingresso nel nostro ordinamento dell’art.21-bis –, riteneva che il giudice amministrativo, qualora accerti la palese infondatezza della pretesa del ricorrente ad ottenere il provvedimento satisfattivo del suo interesse, non deve entrare nel merito dell’esistenza o meno dell’inadempienza, ma limitarsi a respingere il ricorso per carenza d’interesse in capo al suo autore (Cons. St., V Sez., 29 gennaio 1999 n.72).
Tre anni dopo, però, tale indirizzo giurisprudenziale sarebbe stato “rinnegato” dallo stesso Giudice con la nota sentenza dell’Adunanza Plenaria n.1/2002, dove si statuisce, in estrema sintesi, che l’unico provvedimento adottabile dal giudice in accoglimento del ricorso sul silenzio è quello con cui, accertato l’inadempimento dell’obbligo di provvedere della P.A., si ordina all’amministrazione di provvedere entro un dato termine senza entrare nel merito di come lo si debba fare.
L’interpretazione restrittiva data dall’Adunanza Plenaria all’art.21-bis più volte menzionato prefigurava (ed ha concretamente posto) problemi di non poco momento sul piano dello snellimento e celerità dei mezzi di tutela del cittadino, dato che si costringeva il ricorrente, una volta ottenuta la condanna della P.A. a provvedere, a proporre un nuovo ricorso nel caso in cui la stessa P.A. avesse, sì, ottemperato l’ordine del giudice, ma con l’adozione di un provvedimento diverso da quello legittimamente atteso dall’interessato.
A questa specifica problematica il Legislatore ha inteso fornire soluzione in occasione dell’approvazione del c.d. decreto sulla competitività, convertito con la L.80/2005, dove il comma 4-bis dell’art.2 della L.241/1990, introdotto qualche mese prima dalla L.15/02, è stato soppresso e trasformato in un comma 5, riproducente il contenuto dell’ex 4-bis ma con la seguente aggiunta: << Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza>>.
Secondo il vigente testo dell’art.2 L.241/1990, dunque, il giudice amministrativo adito col ricorso ex art.21-bis L.1034/71 non deve limitarsi al solo rilievo dell’inadempimento della P.A. ed alla conseguente condanna della stessa ad emettere un qualsiasi provvedimento, ma può accertare e stabilire, nella sentenza, anche il provvedimento che l’amministrazione dovrà adottare qualora valuti fondata la pretesa sostanziale del ricorrente oppure, nel caso inverso, che nessun provvedimento è dovuto dalla P.A.
L’attribuzione al giudice amministrativo del potere in questione, per ciò che la norma attributiva non dice sui relativi limiti, non poteva non costituire la fonte di nuove ed ulteriori problematiche.
Invero, il riferirsi della disposizione considerata ad un non meglio precisato potere di cognizione del giudice sulla fondatezza della pretesa sostanziale del privato ingenera immediatamente nell’interprete l’idea che al giudice amministrativo si sia inteso attribuire una potestà di eccezionale ampiezza, comportante la possibilità per l’organo giudiziario di sostituirsi, senza particolari preclusioni, alla P.A. inadempiente nel decidere se e come debba essere soddisfatto l’interesse del privato attraverso il provvedimento che la P.A. stessa dovrà emettere.
Era quindi inevitabile che la norma avrebbe indotto gli “addetti ai lavori” a ritenere che, con essa, si sia voluto estendere, in subjecta materia, la giurisdizione amministrativa oltre i consueti limiti del sindacato di legittimità sulla azione della P.A., autorizzando il giudice a surrogarsi a questa, se inadempiente all’obbligo di provvedere, anche nell’esercizio di quei poteri discrezionali riservati all’Amministrazione e che, per divieto generale, l’organo giurisdizionale non può fare oggetto del suo giudicare.
Ed è precisamente in questo modo che la clausola inserita nell’art.2 L.241/90 dalla L.80/2005 è stata intesa dalla III Sezione del T.A.R. del Veneto: “Detta previsione normativa (l’art.2 comma 5, L.241/1990), volta a rendere eccezionale l’ipotesi di inerzia dell’amministrazione, sicchè si giustifica l’intromissione del giudice anche in ambiti di discrezionalità, non limitando la norma ricordata alle sole ipotesi di atti vincolati la possibilità di pregnante sindacato sulla fondatezza dell’istanza, vale a dire sulla definizione del rapporto sottostante, senza alcuna intermediazione dell’atto amministrativo tra la posizione vantata e l’atto richiesto, oltre a rispondere a esigenze di semplificazione, celerità dell’azione amministrativa e tutela del cittadino – in tale quadro va vista anche la possibilità di azione anche senza previa diffida- detta previsione, si diceva, supera la posizione espressa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con decisione n.1 del 9.1.2002 (cfr.C.d.S., V, 10.4.2002), secondo cui “il giudizio avente ad oggetto il “silenzio” dell’amministrazione, quale oggi disciplinato dall’art.21 bis della legge 6.12.1971 n.1034, aggiunto dall’art.2 della legge 21.7.2000 n.205, è volto ad accertare unicamente la violazione dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere sull’istanza di un soggetto tendente a sollecitare l’esercizio di un pubblico potere; con la conseguenza che resta estranea al predetto giudizio la conoscibilità della fondatezza della pretesa sostanziale.”>> ( T.A.R Veneto, III^Sez., 9 novembre 2005 n. 4304 ).
La posizione espressa dal TAR veneto, in verità, sembra sorretta da una interpretazione della norma che tiene conto tanto del significato desumibile dalla sua formulazione logico-letterale ( se è vero che ubi lex voluit dixit, allora l’assenza di ogni precisazione riguardo ai limiti della cognizione giudiziale sulla fondatezza della pretesa del ricorrente deve far concludere che non vi sia alcun limite), quanto dalla intenzione del Legislatore (l’intento di accelerare e semplificare le controversie amministrative giustifica l’eccezionalità di un potere sostitutivo del giudice alla P.A., a prescindere dalla natura vincolata o discrezionale della potestà amministrativa soggetta alla sostituzione); a fortori, lo stesso T.A.R. adombra anche una interpretazione di tipo sistematico, il cui risultato rafforzerebbe ulteriormente la tesi sostenuta dal collegio (la norma in questione avrebbe reso eccezionali le ipotesi di silenzio-inadempimento della P.A., sicché si giustificherebbe anche per questo motivo l’altrettanto eccezionale potere giudiziario di ingerirsi nel merito amministrativo).
Altro tribunale amministrativo (T.A.R. Sicilia – Palermo, II Sez., 7 febbraio 2006 n.332) ha, però, sposato una diversa interpretazione della norma in questione, rimarcando come solo in apparenza la stessa abbia esteso al merito amministrativo i poteri del giudice nel processo sul silenzio-inadempimento.
Quel collegio ha osservato che l’attuale formulazione dell’art.2 co.5 della L.241/1990, pur rappresentando un superamento della posizione espressa dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la citata sentenza n.1/02 (riguardo alla limitazione della cognizione giurisdizionale, in subjecta materia, alla mera inadempienza della P.A. dell’obbligo di provvedere), comporta, sì, la possibilità per il giudice di oltrepassare quel limite – stabilendo il giusto provvedimento che la P.A. deve emettere o rigettando il ricorso per carenza d’interesse – ma ciò solo quando l’inadempienza riguardi provvedimenti a contenuto vincolato, non potendo la stessa norma anche implicare che, attraverso l’esercizio di quel potere, il giudice si sostituisca all’amministrazione resistente nello svolgimento delle potestà discrezionali ad essa riservate.
Osserva, a questo proposito, il TAR palermitano che, in caso di inerzia nell’adozione di un provvedimento discrezionale, <<…il giudice può affermare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere, ma non ha né il potere né gli strumenti per penetrare nella fondatezza della richiesta avanzata dall’istante. Questo perché la potestà discrezionale implica complesse considerazioni di convenienza, opportunità, organizzazione e simili……i cui esiti si pongono quali elementi costitutivi della pretesa che si vorrebbe far valere e la cui assenza implica la mancanza di attualità dell’interesse al ricorso proprio su quel punto. In altri termini, se il potere non è stato esercitato affatto o è stato esercitato in misura incompleta, non si costituisce una situazione suscettibile di essere valutata dal giudice, in quanto i presupposti di fatto e di diritto che incardinano giuridicamente la pretesa del soggetto non sono definiti direttamente dalla legge – che il giudice è tenuto ad applicare – ma richiedono una mediazione della potestà pubblica. Questa conclusione appare coerente col limite che deriva alla giurisdizione amministrativa dalla riserva di amministrazione e dal principio di separazione dei poteri, i quali impediscono al giudice di supplire ad un’amministrazione inerte, circostanza da ritenersi impraticabile anche con riguardo alla natura del giudizio sul silenzio, che esula dal novero della cognizione di merito >>
Essenzialmente, la tesi espressa dal T.A.R. siculo si impernia sulla constatazione dei limiti intrinseci e fisiologicamente invalicabili della giurisdizione intesa come attività di applicazione di regole di diritto: la giurisdizione, essendo attività funzionale ad un giudizio sulla conformità o meno dei comportamenti umani a regole giuridiche astratte e predeterminate, non può avere ad oggetto un giudizio su comportamenti che, come accade in presenza degli atti discrezionali dell’amministrazione, non sono valutabili in base a tali regole ma a parametri aventi natura extragiuridica.
Questa posizione, per la verità, si fonda su un ragionamento che, in mancanza di una fondamentale precisazione (che si dirà più avanti), nasconde un “tallone di Achille” : se è pur vero che il divieto del giudice di ingerirsi nell’attività discrezionale della P.A. rappresenta la naturale ed inevitabile conseguenza di un limite intrinseco alla funzione giurisdizionale, nondimeno la legge, in determinati casi, estende espressamente al merito amministrativo il sindacato del giudice. Tale estensione, pertanto, naturale o innaturale che sia, è valutata possibile dal Legislatore, benché in casi eccezionali. Ed il potere sostitutivo attribuito al giudice dall’art.2 co.5 L.241/90 ben potrebbe presupporre che il Legislatore si prefiguri la fattispecie in parola proprio come uno dei casi eccezionali in cui è consentito il sindacato giurisdizionale anche sul merito.
Il T.A.R. veneto sposa quest’ultima idea, avvalorandone l’esattezza sulla base di un’interpretazione della norma che sembra sorretta da rigore metodologico e resa particolarmente solida dalla convergenza di diversi percorsi ermeneutici verso un identico punto d’arrivo semantico.
Ed, allora, deve concludersi che il giudice amministrativo possa ordinare alla P.A. silente di emettere un atto che questa, in base a sue valutazioni discrezionali, potrebbe scegliere di non adottare o che potrebbe adottare con un diverso contenuto?
No.
In primis, non è vero che l’interpretazione logico-letterale della disposizione in parola conduca a ritenere che il giudice possa surrogarsi alla P.A. nello svolgimento dell’attività discrezionale alla stessa riservata.
Il fatto che la norma nulla dica sui limiti cui è assoggettato il potere cognitivo da essa attribuito al giudice non fa concludere per l’assenza sic et simpliciter di detti limiti. Se la disposizione tace sull’argomento, tale silenzio non assume per se stesso il significato di una legittimazione del giudice a non tenere conto di alcuna preclusione nell’esercizio del potere riconosciutogli, dovendosi invece verificare se ciò che la norma non dice sui limiti in parola non sia detto da altre fonti normative di rango superiore o anche di pari grado. Sicché, ove tali fonti esistano e siano idonee a riempire quel silenzio, la norma considerata è da esse integrata per quanto non dice.
Orbene, il divieto in linea generale rivolto al giudice di ingerirsi nell’esercizio dell’attività discrezionale della pubblica amministrazione si enuclea – come si dirà meglio in seguito – dalla nostra Costituzione e trova una puntuale base di conferma, a livello di legislazione ordinaria, nell’art.27 del T.U. delle Leggi sul Consiglio di Stato che elenca i casi in cui, eccezionalmente, è consentita al giudice amministrativo una giurisdizione estesa al merito.
Se l’art.2 co.5 della L.241/90 nulla dice circa l’estensione della cognizione del giudice agli aspetti implicanti scelte discrezionali rimesse alla pubblica amministrazione, ciò non autorizza ad affermare che la norma preveda una siffatta estensione; una conclusione del genere sarebbe giustificata solo se la previsione considerata annettesse espressamente la fattispecie da essa riguardata all’elenco dei casi in cui l’art.27 del T.U. Cons.St. consente la giurisdizione di merito oppure se, obiettivamente, l’ipotizzata “invasione di campo” fosse realmente giustificabile in termini di indispensabilità dell’affidamento al giudice un potere sostitutivo dotato di una così straordinaria ampiezza ed incisività.
Ma la norma in questione né afferma alcunché circa la possibilità che l’esame della fondatezza della pretesa del ricorrente comporti valutazioni e decisioni giudiziali ampliate al merito amministrativo, né postula l’esistenza di ragioni tali da giustificare quell’eccezionale potere da parte dell’organo giurisdizionale.
A quest’ultimo riguardo, il T.A.R. del Veneto, invece, afferma (apoditticamente) che la disposizione in esame, avendo reso eccezionale l’ipotesi del silenzio-inadempimento, rende legittimo reputare che il giudice amministrativo disponga di un altrettanto eccezionale potere di sostituirsi alla P.A. anche per ciò che riguarda il merito delle fattispecie sostanziali dedotte col ricorso.
Ma per quale ragione e da quali considerazioni scaturisca questa affermazione non viene chiarito dal collegio e, francamente, risulta di difficile comprensione.
Le ragioni per cui l’ordinamento vigente consente la giurisdizione di merito sono essenzialmente due: o perché si tratta di giudicare intorno a particolari fattispecie sostanziali riguardo alle quali può essere estremamente difficile dipanare le questioni di pura legittimità da quelle che investono profili di merito amministrativo oppure perché l’intervento surrogatorio del giudice alla P.A. si configura come una extrema ratio nella tutela del cittadino.
Dovendosi escludere che il giudizio sul silenzio-inadempimento comporti di per sé difficoltà a distinguere aspetti inerenti la legittimità ed aspetti inerenti il merito delle questioni (la problematica può infatti porsi se ed in quanto tale giudizio verta su uno di quei peculiari rapporti espressamente qualificati dalla legge come assoggettati alla giurisdizione di merito), potrebbe presentare maggiore plausibilità profilare come indispensabile l’intervento sostitutivo del giudice alla P.A. nel mancato esercizio motu proprio dei relativi poteri discrezionali.
L’adesione a questa ipotesi implica che la mancata adozione del provvedimento amministrativo entro il termine prescritto sia assimilabile alla situazione che, a norma dell’art.27 del Testo Unico delle Leggi sul Consiglio di Stato, legittima il ricorrente a promuovere il giudizio di ottemperanza contro la P.A. che non abbia dato seguito all’obbligo di provvedere statuito nella sentenza del giudice, giudizio nel quale l’organo giurisdizionale può addirittura giungere a sostituirsi alla P.A. nell’adozione del provvedimento discrezionale.
Se è questa la ragione eccezionale che, in subjecta materia, può giustificare lo sconfinamento dell’attività giurisdizionale in quella amministrativa, è difficile non cogliere l’evidente forzatura di una analogia fra la fattispecie in questione e quella che da’ luogo al giudizio di ottemperanza.
Se il giudizio di ottemperanza non fosse previsto con i corrispondenti poteri sostitutivi del giudice estensibili anche al merito, il cittadino si troverebbe a dover proporre una serie infinita e frustrante di ricorsi ordinari contro la P.A. tutte le volte che questa, dovendo adottare un provvedimento satisfattivo dell’interesse del ricorrente in ottemperanza di una sentenza del giudice, rifiuti di adottarlo e reiteri tale comportamento ad ogni eventuale vittoria successiva del ricorrente.
Come è facile comprendere, le ragioni di straordinarietà che giustificano i poteri del giudice in sede di giudizio di ottemperanza non ricorrono nella fase del giudizio sul silenzio-inadempimento in cui si tratta di verificare se l’inadempimento c’è e come la P.A. debba adempiere; l’art.21-bis della L.1034/71, proprio per l’eventualità di una inottemperanza da parte della P.A. resistente dell’ordine del giudice di provvedere impartito con la sentenza, prevede la possibilità che il ricorrente chieda, in “seconda battuta”, che lo stesso giudice nomini un commissario ad acta perché adotti il provvedimento in luogo della P.A. Sicché, avendo la legge previsto questo meccanismo di surrogazione giudiziale alla P.A. (tramite la longa manus del commissario) per il caso che la P.A. medesima si mostri recidiva nel non adottare il provvedimento, non è legittimo rinvenire una situazione di indispensabilità dell’intervento surrogatorio in parola prima che si verifichi quel comportamento recidivo.
Ma neppure gli argomenti posti dal T.A.R. Veneto a base dell’interpretazione teleologica sono condivisibili.
Per quanto il comma 5 dell’art.2 L.241/1990 sia ispirato da una indubbia ratio di accelerazione e semplificazione dei percorsi di tutela giuridica del cittadino nei riguardi della P.A., a tale “intenzione del Legislatore” deve comunque attribuirsi, in assenza di sicuri indici rivelatori di una voluntas legis derogatrice dei principi portanti della materia, un significato in armonia con questi.
Tuttora, malgrado la progressiva tendenza a spostare il baricentro della giurisdizione amministrativa dal sindacato sulla mera legittimità formale dell’atto amministrativo alla cognizione del rapporto sostanziale fra amministrazione e cittadino (ossia della fondatezza giuridica delle contrapposte pretese involte nel reciproco rapporto giuridico), la c.d. riserva di amministrazione rappresenta una direttiva politico-istituzionale non messa in discussione da quella tendenza e ciò sia perché la riserva in questione non interferisce con l’esigenza di maggiore penetrazione della giurisdizione nel rapporto sostanziale amministrativo sia perché, come accennato, essa affonda le radici nel nostro ordinamento costituzionale.
Si tratta, in particolare, di uno di quei supremi postulati che, essenziali a qualificare ogni moderno stato di diritto come tale, informano la nostra Costituzione senza che questa ne faccia espressa enunciazione e che, nondimeno, trovano in quella sede il loro riconoscimento nella previsione di sotto-principi settoriali che ne costituiscono corollario.
Uno di tali sotto-principi è, ad esempio, quello enunciato dall’art.101 Cost., della sottoposizione del giudice solo alla legge. Altro si rinviene, sempre a titolo esemplificativo, nell’art. 103, che delimita l’ambito della attività giurisdizionale con riferimento alla tutela dei diritti soggettivi ed interessi legittimi (posizioni giuridiche soggettive le quali presuppongono necessariamente che le pretese individuali ad esse collegate abbiano una base legittimante in regole giuridiche predefinite ed eterodeterminate e non nel potere di autodeterminazione politico-amministrativa del soggetto dei cui comportamenti deve giudicarsi).
Fra i principi-pilastro del nostro sistema di giustizia amministrativa vi è, pertanto, ed innegabilmente, quello del rispetto da parte del giudice della riserva di amministrazione, al quale corrisponde il vincolo imposto al potere giurisdizionale di conoscere della sola conformità alla legge dell’azione amministrativa.
Del resto, la stessa riserva di amministrazione è, a sua volta, un corollario del principio della separazione fra potere politico-amministrativo, da un canto, e potere giudiziario, dall’altro.
E’, dunque, l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art.2 co.5 della L.241/90 a fare “piazza pulita” di ogni altra esegesi che conduca a dare alla disposizione un significato diverso da quello al quale essa conduce. Ed è sempre grazie alla lettura costituzionalmente compatibile della norma che la posizione del T.A.R. palermitano finisce per dimostrarsi quella corretta.
Nel silenzio della norma circa i confini del potere del giudice di ”conoscere la fondatezza dell’istanza”, gli stessi non possono che coincidere con l’ambito della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo, così com’è prefigurato dalla Costituzione e delineato dalla disciplina ordinaria del processo amministrativo.
Questo, almeno finché il Legislatore non riterrà di fornire un’interpretazione autentica in senso diverso della norma considerata.

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