lunedì 5 gennaio 2009

PALAZZETTO DELLO SPORT "VALLE MARTELLA " PERCHE' ATTENDERE "?

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Cass. Sez. III n.48031 del 23 dicembre 2008 (Ud. 15 ott. 2008) Pres. Altieri Rel. Amoroso Ric. Cafiero Urbanistica. Acquisizione immobile abusivo per omessa demolizione Ai sensi della legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 7 , comma 3, e del t.u. sull'edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dell'art. 31, comma 3, l'ingiustificata inottemperanza all'ordine di demolizione di costruzione abusiva, emesso dall'autorità comunale, comporta l'automatica acquisizione dell'immobile al patrimonio del Comune, in favore del quale deve quindi essere disposta la restituzione, qualora l'immobile stesso venga dissequestrato. Questo orientamento - non senza qualche dissenso si è affermato come maggioritario e prevalente. In particolare va ribadito che la acquisizione al patrimonio comunale del manufatto e dell'area di sedime conseguente all'inottemperanza all'ordine di demolizione delle opere abusive impartito al contravventore dallo stesso ente comunale si verifica "ope legis" alla inutile scadenza del termine di giorni novanta fissato per detta ottemperanza, senza che possa avere rilievo l'ulteriore adempimento della notifica all'interessato dell'accertamento formale dell'inottemperanza, unicamente idoneo a consentire all'ente l'immissione in possesso e la trascrizione nei registri immobiliari del titolo dell'acquisizione. Il trasferimento al patrimonio comunale della proprietà dell'immobile abusivo, automaticamente conseguente alla scadenza del termine di novanta giorni fissato per l'ottemperanza all'ordinanza sindacale di demolizione, non costituisce impedimento giuridico a che il privato responsabile esegua l'ordine di demolizione impartitogli dal giudice con la sentenza di condanna, salvo che l'autorità comunale abbia dichiarato l'esistenza di interessi pubblici prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato. La conseguenza è che il manufatto abusivo dissequestrato dopo che il responsabile non abbia ottemperato all'ingiunzione comunale di demolizione dello stesso, va restituito non già al privato responsabile, quand'anche egli sia ancora in possesso del bene, bensì allo stesso ente comunale, ormai divenutone proprietario a tutti gli effetti a seguito dell'inutile decorso del termine di legge di cui all'art. 31 del D.Lgs. n. 380 del 2001.

1 commento:

Mario Procaccini ha detto...

Prima Parte


Se il rapporto di coppia diviene particolarmente teso non è infrequente che ad esso debba interessarsi il giudice penale: o perché i protagonisti di questa relazione pongono in essere comportamenti tali da realizzare alcuni fra i reati più frequenti (per es. ingiuria, minacce, percosse, lesione personale), oppure perché la violazione posta in essere è specificamente diretta a colpire la famiglia.

In particolare, i reati contro la famiglia (fra parentesi sono state indicate le varie figure criminose) possono riguardare il matrimonio (bigamia e induzione al matrimonio mediante inganno, mentre sono stati dichiarati incostituzionali altri due reati: l’adulterio e il concubinato), la morale familiare (incesto e attentati alla morale familiare commessi col mezzo della stampa), lo stato di famiglia (supposizione, soppressione e alterazione di stato, occultamento di stato di un fanciullo legittimo o naturale riconosciuto), l’assistenza familiare (violazione degli obblighi di assistenza familiare, abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, sottrazione consensuale di minorenni, sottrazione di persone incapaci).

In questo e in due successivi articoli passeremo in rapida rassegna, dei suddetti reati, quelli più ricorrenti, alcuni dei quali sono puniti a querela di parte (per questo istituto si veda il box qui sotto), mentre altri sono puniti d’ufficio, vale a dire indipendentemente da una richiesta in tal senso da parte dell’interessato.

Va premesso che la privacy è tutelata anche fra le pareti domestiche: è infatti imputabile dei reati di cui agli artt. 617 e 617 bis c. p., rubricati, rispettivamente, cognizione, interruzione o impedimento illeciti di comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche, e installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche, il coniuge che installi nella propria abitazione un apparecchio di registrazione delle conversazioni telefoniche dell’altro e ne prenda conoscenza (Cass. 18/3/2003, n. 12698).


La querela (art. 120 e segg. c.p.) è l’atto col quale la persona offesa da un reato per il quale non si debba procedere d’ufficio (o su richiesta o istanza del Ministro della Giustizia) chiede che l’autore di esso venga punito: in questi casi, quindi, senza questo atto la macchina della Giustizia non può mettersi in movimento, per cui la querela viene tecnicamente indicata come condizione di procedibilità, appunto come condizione senza la quale non si può procedere giudizialmente nei confronti dell’autore del reato. La querela dev’essere presentata entro tre mesi dal giorno in cui l’interessato ha avuto notizia del reato salvo che la legge disponga altrimenti, al Pubblico Ministero o a un ufficiale di polizia giudiziaria, anche oralmente (nel qual caso il ricevente ne redige verbale che viene firmato dal querelante). La querela può essere presentata anche da un procuratore dell’interessato, mentre per i minori e gli incapaci viene presentata, a seconda delle circostanze, dal genitore, dal tutore o dal curatore.

Se un reato ha danneggiato più persone, la querela presentata da una soltanto di esse lo rende punibile, mentre se è stato commesso da più persone la querela si estende a tutte.

Il diritto di querela si estingue con la morte della persona offesa; se era stata presentata può essere ritirata (cosiddetta remissione di querela) dagli eredi, a patto che siano tutti d’accordo e che il querelato accetti: questi, infatti, potrebbe aver interesse a fare piena luce sul fatto oggetto di querela, allo scopo, se del caso, di far condannare per calunnia l’incauto querelante. Se i querelanti erano più d’uno, affinché la remissione operi dev’essere fatta da tutti, mentre la remissione fatta in favore di un correo si estende agli altri.

Diversa dalla remissione di querela è la rinuncia alla querela: mentre, infatti, con la remissione si ritira una querela già presentata, con la rinuncia ci si priva della possibilità di presentarla. La rinuncia alla querela, una volta fatta, è irrevocabile.



Induzione al matrimonio mediante inganno



L’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.) è il reato di chi, nel contrarre matrimonio avente effetti civili, occulta con mezzi fraudolenti all’altro coniuge l’esistenza di un impedimento che non sia quello derivante da un precedente matrimonio; nel qual caso, infatti, si configurerebbe il reato di bigamia aggravata (art. 556, secondo comma, c.p.). Affinché si configuri il reato è necessario che il matrimonio venga annullato a causa dell’impedimento occultato. Si punisce, d’ufficio, con la reclusione fino a un anno o con la multa da 216 a 1.032 euro.



Bigamia



Commette il reato di bigamia chi, essendo legato da matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pure aventi effetti civili. La bigamia è punita dall’art. 556 c.p., d’ufficio, con la reclusione da uno a cinque anni. La pena è aumentata se il colpevole ha indotto in errore la persona, con la quale ha contratto matrimonio, sulla libertà dello stato proprio o di lei.

La stessa pena si applica a chi, non essendo coniugato, contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili.

Se il matrimonio contratto precedentemente dal bigamo è dichiarato nullo, oppure è annullato il secondo matrimonio per causa diversa dalla bigamia, il reato si estingue anche nei confronti di coloro che sono concorsi nel reato, e se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

Anche i matrimoni contratti all’estero, ancorché non trascritti, producono effetti giuridici nel nostro Paese, in quanto la trascrizione in Italia dei matrimoni civili contratti all’estero da cittadini italiani non ha natura costitutiva, ma dichiarativa e certificativa; risponde pertanto di bigamia il cittadino italiano coniugato che contragga matrimonio all’estero (Cass. 4/7/1985). Lo stesso dicasi se, sposato all’estero, contragga matrimonio in Italia perdurando il precedente vincolo coniugale (Cass. 2/2/1982). Quest’ultima sentenza ha precisato che, ai fini della configurabilità del reato di bigamia, dev’essere considerato legato da precedente matrimonio avente effetti civili anche colui che abbia ottenuto all’estero pronuncia di divorzio non riconosciuta in Italia.

Un’attenzione particolare meritano i matrimoni celebrati a Las Vegas (Nevada), in un’atmosfera apparentemente giocosa; essi, se la cerimonia, come di regola accade, si tiene nel rispetto della normativa vigente in quello Stato, previo rilascio della relativa licenza di matrimonio, sono perfettamente validi. Da ciò discende che, se a sposarsi con persona diversa dal proprio coniuge è una persona vincolata da precedete matrimonio o separata ma non ancora divorziata, commette il reato di bigamia, indipendentemente dal fatto che il matrimonio sia stato trascritto in Italia nell’apposito registro dello stato civile; i matrimoni contratti all’estero, infatti, anche se non trascritti, spiegano in Italia efficacia giuridica, in quanto la trascrizione in Italia dei matrimoni civili contratti all’estero da cittadini italiani non ha natura costitutiva, ma dichiarativa e certificativi (Cass. 4/7/1985).



Violazione degli obblighi di assistenza familiare



Si rende responsabile di violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) chi, abbandonando il domicilio domestico (nel caso dei coniugi si parla di abbandono del tetto coniugale), o, comunque, tenendo una condotta contraria all’ordine o alla morale familiare, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà o alla qualità di coniuge; si punisce, a querela di parte (ma non mancano caso in cui si procede d’ufficio: per es. se il reo dilapida i beni del figlio minore o del coniuge), con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 a 1.032 euro. Queste pene si applicano congiuntamente a chi malversa (ossia destina a finalità estranee agli interessi del titolare) o dilapida (ossia sperpera)i beni del figlio minore o del coniuge, o fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore o inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge cui non sia stata addebitata la separazione (la Corte d’Appello di Bologna, con sentenza n. 920 del 5/4/2004, non ha ritenuto compreso nel concetto di mezzi di sussistenza, e quindi penalmente rilevante, l’omesso versamento, da parte del marito, del contributo alla spesa sostenuta dalla moglie separata per l’acquisto di una carrozzina ortopedica, ritenendolo azionabile soltanto in sede civile ai fini del rimborso). In capo a chi abbandoni il domicilio domestico facendo mancare al figlio minore i mezzi di sussistenza il reato si configura a prescindere dal fatto che altri familiari abbiano provveduto al mantenimento del minore (Trib. Napoli 9/2/2005, n. 791). Successivamente la Cassazione (sentenza n. 22703 del 27/4/2007) ha a sua volta statuito che, il genitore obbligato che ometta di versare all’altro coniuge l’assegno stabilito in sede di separazione giudiziale per il mantenimento del figlio minore, risponde del reato di cui sopra indipendentemente dal fatto che al mantenimento abbiano fatto fronte l’altro coniuge con l’aiuto di altri congiunti; ciò, infatti, non elimina lo stato di bisogno in cui versa il soggetto passivo, ma ne costituisce la prova.

Il coniuge che si allontana dalla residenza familiare perde il diritto al mantenimento ai sensi dell’art. 146, primo comma, c.c., soltanto quando l’allontanamento medesimo sia ingiustificato e persista, con un rifiuto a tornare, nonostante il richiamo dell’altro coniuge, poiché, ove quest’ultimo si adegui, omettendo di richiamare il coniuge allontanatosi, si realizza una situazione di separazione di fatto, nella quale restano il vigore gli obblighi di cui all’art. 143 c.c. (Cass. 14/5/1981, n. 3166); l’allontanamento dal domicilio domestico, quindi, non è di per sé sufficiente a configurare il reato, ma dev’essere ingiustificato e non indotto, per esempio, dall’impossibilità, dall’intollerabilità o dall’estrema penosità della convivenza (Cass. 14/10/2004, n. 44614).

Fra i casi in cui l’abbandono del tetto coniugale è stato ritenuto giustificato, e quindi non considerato reato, a parte l’abbandono seguito dalla proposizione della domanda di separazione o di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, previsto dal secondo comma dell’art. 146 c.c., rientra quello della moglie-madre che aveva abbandonato la casa coniugale perché esasperata dalla convivenza con i suoceri (Cass. 12/3/1999); le ipotesi previste dal citato art. 146, infatti, non sono state considerate tassative dai giudici e possono pertanto essere integrate mutuando dalle disposizioni in tema di separazione (art. 151 c.c.) le ulteriori previsioni dell’”intollerabilità della prosecuzione della convivenza” e del “grave pregiudizio per l’educazione della prole”. Sempre a proposito di suoceri, è stato ritenuto giustificato l’allontanamento della moglie in presenza di una situazione in cui la madre del marito, in possesso delle chiavi della casa coniugale, accedeva a questa in ogni momento, intromettendosi così nella vita privata della nuora, con una condotta permessa e approvata dal marito ma non tollerata dalla moglie (Cass. 29/10/1997, n. 10648), mentre il Tribunale dei minorenni di Torino (sentenza dell’11/5/1988) non ha ritenuto arbitrario il comportamento della madre, vedova, che impediva al figlio minore di frequentare la nonna paterna, sua suocera, che nutriva nei suoi confronti un’animosità tale da produrre conseguenze psicologiche negative sul minore, nuocendo al rapporto madre-figlio. Il coniuge separato che eccepisca il proprio stato di disoccupazione a giustificazione della mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento deve provare che questa condizione non è dipesa da sua volontà; pertanto, se egli si licenzia senza ricercare un nuovo lavoro, e non sussiste uno stato patologico di malattia accertato, è imputabile del reato (Trib. Genova 20/2/2004, n. 509). In questa ottica, le difficoltà economiche in cui versi l’obbligato non escludono la sussistenza del reato, qualora non risulti provato che dette difficoltà si sono tradotte in una vera e propria indigenza e nella conseguente impossibilità di adempiere, sia pure parzialmente, all’obbligazione (Trib. Roma 4/6/2004, n. 13466): l’incapacità economica dell’obbligato, in altri termini, dev’essere assoluta e incolpevole, e da questi rigorosamente provata (Cass. 19/5/2005, n. 32540).

Poiché la sentenza di divorzio porta alla cessazione dello status di coniuge, e non è più configurabile una “famiglia”, il coniuge divorziato che si sottrae all’obbligo di corresponsione dell’assegno dovuto a norma degli artt. 5 e 6 L. 898/1970 non risponde di violazione degli obblighi di assistenza familiare ma del reato previsto dall’art. 12 sexies L. n. 898/1970, introdotto dall’art. 21 L. 74/1987, il quale richiama l’art. 570 c.p. ma solo ai fini della pena; il reato si configura con la semplice omissione della corresponsione dell’assegno nella misura disposta dal giudice, indipendentemente dalla circostanza che tale omissione comporti il venir meno dei mezzi di sussistenza per il beneficiario dell’assegno (Cass. 11/1/2005, n. 5719). La stessa Cassazione, però, con una successiva decisione (n. 14103 del 13/2/2007), ha stabilito che la mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento non rende per ciò solo l’obbligato responsabile del reato di cui al secondo comma, n. 2), dell’art. 570 c.p.; al contrario, ha precisato la Suprema Corte, anche il completo adempimento dell’obbligo suddetto potrebbe dar luogo al reato, dovendosi distinguere le nozioni civilistiche di “mantenimento” e “alimenti” da quella di “mezzi di sussistenza”, mezzi di sussistenza identificabili in ciò che è strettamente indispensabile, a prescindere dalle condizioni sociali o di vita pregressa degli aventi diritto: come il vitto, l’abitazione, i canoni per utenze indispensabili, i medicinali, le spese per l’istruzione e il vestiario. Il Tribunale di Perugia-Foligno (sentenza del 17/5/1999), per parte sua, ha stabilito che non viola l’art. 570, 2º comma, c.p. il coniuge divorziato che ometta di versare l’assegno di mantenimento al figlio trentenne, stante la natura “assistenziale” di questa obbligazione.

Ai fini della configurabilità del reato, perseguibile d’ufficio (Cass. 3/1/2007, n. 14), si deve distinguere fra assegno stabilito dal giudice in sede di separazione o di divorzio e mezzi di sussistenza; questi ultimi, infatti, sono del tutto indipendenti dalla valutazione del giudice e comprendono, ai fini penali, solo ciò che è necessario alla sopravvivenza dei familiari (Cass. 16/6/2003, n. 37808); di conseguenza il reato non coincide necessariamente con la mera inottemperanza degli obblighi sanciti in sede civile, ma si realizza quando si facciano mancare alla persona tutelata dalla legge (coniuge o figli minori, o entrambi) quanto è necessario per le esigenze primarie di vita (Trib. Roma 11/5/2004): ciò indipendentemente da qualsiasi statuizione del giudice civile (Cass. 17/5/2004, n. 32508); Occorre inoltre che si provi da un lato lo stato di bisogno dell’avente diritto, e dall’altro la capacità economica dell’obbligato a fornire al primo i mezzi indispensabili per vivere (Cass. 8/7/2004, n. 37137).

Quest’ultima sentenza ha stabilito che il fallimento dell’obbligato non è sufficiente ad escludere il reato, dovendo egli dimostrare di essere stato privato di tutti i suoi mezzi economici e di non essere in grado di sopperire alla privazione con una diversa attività.

Chi fa mancare i mezzi di sussistenza a più congiunti (per es. coniuge e figli minori), omettendo di corrispondere a ciascuno di essi l’importo mensile stabilito dal giudice, commette un unico reato e non una pluralità di reati in concorso formale o in continuazione fra loro (Cass. 8/4/2003, n. 30586). Il coniuge, però, oltre a non corrispondere l’assegno divorzile, con conseguente violazione dell’art. 570 c.p., fa anche mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore, incorre anche nella fattispecie di cui al secondo comma, n. 2, del citato articolo (Cass. 19/5/2005, n. 32540).

Dalla violazione, da parte del genitore, dell’obbligo di fornire assistenza morale, materiale ed educativa ai figli, deriva un danno che per il Tribunale di Venezia (sentenza n. 1292 del 30/6/2004) non è assorbito dal danno morale, ma è riguardabile come danno esistenziale, liquidabile dal giudice in via equitativa.

Concludiamo con una sentenza del Tribunale di Genova (n. 2859 del 7/11/2003) in materia di rapporti fra coniugi di diversa nazionalità: il fatto che il diritto islamico consenta al marito di ripudiare la moglie e di sottrarsi agli obblighi nascenti dal matrimonio non ha alcun rilievo ai fini della configurabilità del reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare commesso in Italia, di cui sia accertata la sussistenza