lunedì 11 maggio 2009

SFIORATA LA RISSA ?

Art. 9 (Recupero urbanistico dell’abusivismo edilizio e modifiche alla legge regionale 2 maggio 1980, n. 28 e successive modifiche) 1. In attuazione di quanto previsto dall’articolo 29 della l. 47/1985, come modificato dall’articolo 32, comma 42, del d.l. 269/2003 e successive modifiche, i comuni interessati da insediamenti edilizi abusivi provvedono, entro il 30 giugno 2007, al loro recupero urbanistico attraverso apposite varianti speciali, ai sensi della legge regionale 2 maggio 1980, n. 28 (Leodori inviò i piani solo il primo Agosto 2008- su mia sollecitazione )

ECCO I MOTIVI: Promette di sanare tutti...ma nel frattempo manda le lettere di diniego........Arma ricattatoria per le prossime elezioni . Il lupo cambia il pelo ma non il vizio.....................

1 commento:

Mario Procaccini ha detto...

Brevi notazioni al c.d. “terzo condono edilizio” : ambito applicativo e sanatoria in aree vincolate.

Avv. Emiliano Bottazzi



A meno di un mese dalla scadenza del termine per la presentazione delle istanze di ammissione al c.d. “condono edilizio”, fissato al 31 marzo 2004 –ed in attesa che l’Amministrazione dello Stato provveda a fornire qualche chiarimento in ordine alle sue modalità applicative– pare utile compiere qualche osservazione intorno agli aspetti più rilevanti o controversi della nuova sanatoria1.

Il c.d. “terzo condono edilizio” è disciplinato dall’art. 32 del Decreto Legge 30 settembre 2003 n. 269 che, sostanzialmente, “riapre” i termini della sanatoria già introdotta con le Leggi n. 47/85 e 724/94 alle opere realizzate abusivamente e completate entro il 31 marzo 2003.

Il testo originariamente licenziato dal Governo, oltre ad una formulazione obiettivamente macchinosa, conteneva sviste e refusi che hanno reso l’interpretazione della norma alquanto difficoltosa (si rimanda, sul punto, all’interessante articolo del Prof. Sebastiano Conte, pubblicato su questa Rivista lo scorso 21 ottobre 2003, che ha indicato in maniera completa le lacune del “nuovo condono”).

Mentre però al secondo inconveniente è stato posto rimedio con la legge 24 novembre 2003, n. 326, l’intrinseca oscurità di talune disposizioni non ha trovato emenda neppure in sede di conversione e, ad oggi, i dubbi sul loro significato permangono immutati.

L’ambito applicativo del nuovo condono fra certezze e perplessità.

I. Limiti dimensionali.

Il 25° comma dell’art. 32, D.L. 269/2003 estende “le disposizioni di cui ai Capi IV e V della Legge 28 febbraio 1985, n. 47 […], come ulteriormente modificate dall’art. 39 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724 […], nonché della presente normativa alle opere abusive che risultino ultimate entro il 31 marzo 2003”, fissando anche i limiti dimensionali dei manufatti ammesse “condonabili”:

750 mc per ciascuna unità abitativa (a condizione che lo stabile non superi, nel suo complesso, i 3.000 mc)2, per gli edifici residenziali di nuova costruzione;

un incremento dimensionale non superiore al 30 per cento della volumetria esistente o, in alternativa, non superiore a 750 mc, per gli interventi abusivamente realizzati sul patrimonio edilizio già esistente.

In questa parte il “terzo condono” non presenta, in effetti, novità di rilievo rispetto a quelli che lo hanno preceduto e, quindi, l’interpretazione di tali norme sembra abbastanza agevole.

Merita peraltro segnalarsi come il Legislatore, nel definire il limite dimensionale delle nuove costruzioni ammesse a sanatoria, abbia compiuto un esplicito riferimento alla loro destinazione residenziale, (riferimento assente nell’art. 39 della L. n. 724/94) che non mancherà –si crede– di suscitare dubbi e perplessità.

Senza troppo dilungarsi sul tema, basta in proposito rammentare come nella fase applicativa del c.d. “secondo condono” fosse stato prospettato da taluna dottrina –e persino dal Ministero dei LL.PP. con la circolare n. 2241/UL del 17 novembre 1995– una lettura molto “ampia” della disciplina in esso contenute, in forza della quale i limiti dimensionali da essa indicati avrebbero trovato applicazione solo con riferimento agli edifici residenziali, e non anche per quelli ad uso diverso (industriale/ artigianale, commerciale, sportivo).

La tesi era stata peraltro smentita dalla successiva giurisprudenza (ex plurimis, T.A.R. Friuli Venezia Giulia, 19 febbraio 2000, n. 124) che aveva stabilito l’applicabilità del limite suddetto a qualsiasi tipo di struttura, denunciando la non correttezza dell’indirizzo appena esposto.

L’art. 32 del D.L. 269/2003 sembra aver optato per un regime ancor più severo di questo e, dal disposto del comma 25, si può trarre la conclusione per cui gli interventi di nuova costruzione possano essere ammessi a sanatoria, entro i limiti ivi indicati, solo se destinati ad uso residenziale, mentre solo gli ampliamenti (di cui al primo periodo) potranno essere “condonati” anche se eseguiti su immobili adibiti a destinazione diversa (turistico ricettiva, commerciale, etc…).

II. Le tipologie di opere ammesse al condono: la tabella allegata al D.L. 269/2003 – Differenze con la precedente classificazione.

Dubbi anche maggiori sorgono, poi, esaminando il contenuto dei commi 26° e 27° del citato art. 32.

Il comma 26° indica le categorie di opere ammesse al condono e, per definirle, si richiama al contenuto della tabella allegata allo stesso Decreto, che le enumera analiticamente.

Esse sono 6, contro le 7 della precedente disciplina, così individuate :

opere realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici;

opere realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio ma conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici alla data di entrata in vigore del presente decreto;

opere di ristrutturazione edilizia come definite dall’art. 3, comma 1, lett. “d” del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio;

opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall’art. 3, comma 1, lett. “c” del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio, nelle zone omogenee “A” di cui all’art. 2 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444;

opere di restauro e risanamento conservativo come definite dall’art. 3, comma 1, lett. “c” del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio;

opere di manutenzione straordinaria, come definite dall’art. 3, comma 1, lett. “b” del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, realizzate in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio; opere o modalità di esecuzione non valutabili in termini di superficie o volume.

Merita anzitutto ricordarsi come, nell’individuare le categorie degli interventi ammessi a sanatoria (almeno le prime due), il Legislatore non sia ricorso alle definizioni fornite dalla vigente legislazione urbanistica, ma abbia preferito utilizzare categorie “proprie” (il generico termine “opere” è stato mutuato dai precedenti condoni), non immediatamente rapportabili alle definizioni oggi contenute nel T.U.

In proposito, e per una maggior chiarezza, si può segnalare come, ad opinione della preponderante dottrina –corroborata dall’interpretazione fornita, illo tempore, dallo stesso Ministero dei Lavori Pubblici con la già citata circolare n. 2241/UL del 17 novembre 1995– entro le prime due categorie d’intervento debbano essere inclusi, unicamente, gli interventi di nuova costruzione, come oggi ben definiti dall’art. 3 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 3803.

Venendo ora agli aspetti della predetta disciplina più innovativi rispetto all’originaria classificazione degli interventi ammessi alla sanatoria –quella contenuta nella tabella allegata alla L. n. 47/85–, si segnalano la soppressione della III categoria di opere (quelle realizzate “senza licenza edilizia o concessione o in difformità da questa ma conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici al momento dell’inizio dei lavori”) e la ri-definizione della (ex) quarta categoria (“opere realizzate in difformità dalla licenza edilizia o concessione che non comportino aumenti della superficie utile o del volume assentito; opere di ristrutturazione edilizia […]; opere che abbiano determinato un mutamento di destinazione d’uso”), ora numerata come III e relativa alle sole ristrutturazioni edilizie, priva quindi di riferimenti agli interventi eseguiti senza aumento di superficie o volumetria od ai mutamenti della destinazione d’uso.

Le diversità paiono più che altro formali e, comunque, non restringono (non direttamente, almeno) l’ambito applicativo della disciplina.

Quanto alla soppressione della III categoria di opere (cui erano riconducibili, in sostanza, gli interventi conformi alla pianificazione vigente all’epoca in cui fu iniziata la loro costruzione, ma non assistiti da titolo perché in contrasto con piani adottati ed opranti “in salvaguardia”) l’unico effetto ad essa riconducibile è il “riassorbimenmto” di tali interventi nella I categoria, con conseguente maggiorazione degli importi per l’oblazione rispetto al passato.

Del pari, la riformulazione della IV (ora III) categoria non sembra aver sortito nessun effetto, se non la “traslazione” degli abusi “che non comportino aumenti della superficie utile o del volume assentito” nelle prime due categorie (a seconda che gli stessi siano o meno conformi alla disciplina pianificatoria), con conseguente, nuovo, aumento della tariffa per l’oblazione.


III. Il secondo periodo del comma 26 – condizioni per l’ammissibilità al condono.

Prendendo a base la distinzione in categorie operata dalla tabella, il secondo periodo del 26° comma definisce l’ambito “spaziale” del condono, testualmente stabilendo (lettera “a”) che:

- le opere di cui alle prime categorie 1, 2 e 3 accedono alla disciplina dell’art. 32 “nell’ambito dell’intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto alla lettera “e” del comma 27” (cioè l’inapplicabilità della sanatoria alle opere eseguite su immobili dichiarati monumento nazionale o di particolare interesse storico);

- le opere di cui alle categorie 4, 5, e 6 (quelle, cioè, di minor momento e/o comunque meno “impattanti”) “nell’ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all’art. 32 della L. 28 febbraio 1985, n. 47”.

Soggiunge poi la lettera “b” dello stesso periodo che “le opere di cui ai numeri 4, 5 e 6 della tabella sono suscettibili di sanatoria “nelle aree non soggette ai vincoli di cui all’art. 32 della L. 28 febbraio 1985, n. 47 in attuazione di legge regionale da emanarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto con la quale è determinata la possibilità le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria di tali tipologie di abuso”.

Il modo in cui tale disposizione è stata “congegnata” non può non destare perplessità.

Stando infatti al contenuto della norma (e salvo quanto si dirà appresso circa il comma 27), si desume che :

le opere delle prime tre categorie –quelle, come detto, più “impattanti” sotto il profilo urbanistico e ambientale– potranno essere ammesse alla sanatoria “sull’intero territorio nazionale”, senza cioè rilievo per il fatto che si trovino o meno in aree vincolate;

quelle delle ultime tre categorie potranno accedere ai benefici del D.L. 269/03 se ricadenti in aree vincolate, mentre per gli interventi non ricadenti in aree vincolate le Regioni potranno modificare (in senso, ovviamente, più restrittivo) le norme sul condono così da limitarne la portata.

Il risultato è chiaro: il condono dovrebbe essere sempre possibile (o comunque più “facile”) in aree vincolate e per le opere di cui alle prime tre categorie, mentre potrebbe essere limitato od escluso per gli interventi, meno importanti, eseguiti in aree non soggette a vincolo!

Se questo è davvero il senso della norma, sfugge la ratio che ad essa sottende ed, anzi, essa pare antitetica rispetto alle esigenze di tutela del paesaggio e dell’ambiente che proprio lo Stato, in base alla Costituzione, dovrebbe perseguire.

IV. Il comma 27 – Opere escluse dal Condono e tutela delle aree vincolate.

A limitare l’efficacia della sanatoria “provvede” il successivo comma 27, che individua sette “condizioni” (o circostanze) comunque ostative all’ottenimento del titolo abilitativo, una –la prima– di tipo soggettivo ed attinente alla persona del proprietario od avente causa dell’immobile (che, se condannato per i reati di cui all’art. 416 bis, 648 bis e 648 ter, non potrà accedere al beneficio dei due commi precedenti); le altre 6, di carattere obiettivo, attinenti la localizzazione dell’intervento o le sue caratteristiche.

IV – 1. Fra esse, quelle di cui alle lettere “a”, “b”, “c”, “e”, “f” e “g”, per la loro semplicità o per il loro marginale interesse, non abbisognano di particolari commenti4, mentre quella di cui alla lettera “d” –per la prevedibile maggior frequenza applicativa e/o per la più difficile comprensione– merita maggiore attenzione.

IV – 2. La lettera “d” del comma 27 esclude dalla sanatoria “le opere… che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima dell’esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità dal titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.

Ciò che immediatamente si può trarre dal precetto in esame è che le opere cui esso fa riferimento sono, solo ed esclusivamente, quelle riconducibili alla prima tipologia della tabella annessa al D.L. 269/2003, quelle (cioè), realizzate non solo in assenza del titolo abilitativo, ma pure in contrasto con la vigente disciplina urbanistica.

Non dovrebbero dunque ricadere nell’ambito applicativo della disposizione in esame gli interventi maggiori5 conformi alla disciplina urbanistica vigente al tempo della sanatoria, né quelli minori (ristrutturazione, restauro, manutenzione straordinaria ed ordinaria).

La formulazione del precetto lascia poi intendere che i vincoli in esso indicati costituiscono fattore preclusivo all’ottenimento della sanatoria soltanto ove gravino –direttamente– sul manufatto abusivamente realizzato o manipolato, e non sull’area in cui sorge l’edificio.

Tanto si può evincere, infatti, dal tenore letterale della norma –che riferisce l’esistenza del vincolo all’immobile, e non all’area di sedime su cui esso sorge– e da una lettura sistematica del precetto con quelle di cui alla L. n. 47/85.

Basti infatti rilevare, al riguardo, come la sanatoria delle opere realizzate su aree soggette a vincolo trovi la propria, specifica disciplina in una diversa disposizione (l’art. 32 della L. n. 47/85), espressamente richiamata e “fatta salva” dallo stesso comma 27, rispetto alla quale esso si pone in rapporto di specialità e da essa differenziandosi proprio per la diversa “localizzazione” del vincolo.

IV – 3.Vero ciò, non si può tuttavia trascurare come la disposizione in esame desti, sul piano applicativo, qualche perplessità.

Se infatti è certamente possibile distinguere, nell’ambito della tutela paesistico–ambientale, vincoli gravanti su intere porzioni di territorio da vincoli imposti su singoli beni immobili (si pensi ai beni di cui alle lettere “a” e “b” dell’art. 139, D.Lgs. 490/1999), l’operazione riesce più difficile quando, dal “campo” della tutela paesistica, si passa a quello dei vincoli diversi, comunque richiamati nella lettera in esame.

Per ciò che concerne i vincoli posti a tutela delle falde acquifere, essi, in forza di quanto disposto dal D.P.R. n. 236/88 –come modificato dal D.Lgs. n. 152/99– vengono infatti a gravare, in forza di espresso provvedimento regionale da adottare d’intesa con le Autorità d’Ambito di cui alla L. n. 36/94, nelle zone circostanti le falde acquifere e si distinguono in vincoli “assoluti” (estesi alle c.d. “zone di tutela assoluta”, molto vicine alla sorgente, in cui non è consentita la realizzazione delle sole opere di captazione), e “relativi” (estesi alle c.d. “zone di rispetto”, in cui vengono ammessi tutti quegli interventi che abbiano una destinazione compatibile con l’attività d’emungimento).

Ugualmente dicasi per il c.d. “vincolo idrogeologico” di cui all’art. 1 della L. 1923 n. 3267 –che, tra l’altro, non determinano mai, di per sé, un vincolo d’inedificabilità assoluta6– e per quello imposto su “parchi ed aree protette”, che grava, per definizione, non su singoli immobili ma su intere zone del territorio.

È chiaro come, rispetto a tali tipologie di vincolo, la lettera “d” del comma 27 si presenti di difficile applicazione (e, comunque, poco chiara), non potendo tali “pesi” –almeno apparentemente– essere localizzati sul singolo immobile ma (piuttosto e solo) sull’area entro cui esso sorge.

In tale contesto, l’unica soluzione possibile al riferito busillis sembra quella –certamente criticabile, ma allo stato priva di valide alternative– di ritenere inapplicabile la sanatoria :

agli immobili su cui gravi, direttamente, un vincolo ambientale; non invece a quelli realizzati su terreni –zone– soggette allo stesso vincolo, poiché in questi casi la norma del comma 27 non pare suscettibile di diversa interpretazione;

agli immobili che sorgono in zone soggette a vincolo idrogeologico ovvero posto a tutela delle falde acquifere o ricompresi nel perimetro di parchi istituiti con legge statale o regionale, in quanto, per il concreto manifestarsi di tali vincoli, non sembra predicabile la sua pertinenza al manufatto, ma –solo– alla porzione, più o meno vasta, di territorio su cui quest’ultimo eventualmente insiste.

Resta fermo, ovviamente, come la norma in discorso, proprio per la sua formulazione, intrinsecamente contraddittoria, desti perplessità e paia facilmente esposta a critiche e censure sotto il profilo della ragionevolezza.


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1 La presente riflessione non prende in considerazione la disciplina del c.d “condono” su aree demaniali, disciplinato dai commi 14° e seguenti del D.L. 269/2003, che costituirà oggetto di successiva indagine.

2 Rispetto al c.d. “secondo condono”, il D.L. 269/2003 ha indicato anche la volumetria massima delle nuove costruzioni (che non potranno eccedere i 3.000), così emendando una delle lacune più vistose della precedente disciplina.

3 Il concetto di “nuova costruzione” viene definito dall’art. 3, comma primo, lett. “e” del D.P.R. n, 380/2001: in tale categoria d’intervento ricadono tanto le nuove edificazioni in senso stretto quanto – ed è questa la maggiore novità della norma – gli ampliamenti di costruzioni preesistenti, che – prima dell’introduzione del Testo Unico– erano ricondotte, almeno entro certi limiti ed al ricorrere di particolari condizioni (limitato incremento dimensionale) nella diversa categoria della ristrutturazione edilizia o, persino, urbanisticamente irrilevanti : si veda, in proposito, TAR Molise, 3 maggio 2000, n. 110, a mente della quale “L’ampliamento di un bagno situato in un cortile interno comportante un minimo aumento volumetrico, non costituisce ristrutturazione e non necessita, pertanto, di concessione di costruzione”).

4 La fattispecie di cui alla lettera “a” (opere eseguite dal proprietario od avente causa condannato, con sentenza definitiva, per i delitti di cui agli artt. 416 bis, 648 bis e ter) inibisce la sanatoria di quei beni che siano in proprietà (o vengano acquistati) da persone condannate per associazione a delinquere di stampo mafioso o riciclaggio.

La lettera “b” esclude dall’ambito del condono le opere realizzate abusivamente, quando “non sia possibile effettuare interventi per l’adeguamento antisismico, rispetto alle categorie previsti per i comuni secondo quanto indicato dall’Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri 20 marzo 2003, n. 3274”. La norma, di formulazione imprecisa e poco chiara, fa riferimento all’Ordinanza del Presedente del Consiglio che –molto di recente– ha dettato nuovi criteri per la realizzazione di strutture in zone sismiche.

La lettera “c” vieta l’ammissione al condono di quelle opere realizzate su suolo pubblico di cui il proprietario non sia riuscito ad ottenere la disponibilità dall’Ente proprietario.

La lettera “e” ed “f” escludono dalla sanatoria, rispettivamente, le opere dichiarate “monumento nazionale”o “di interesse particolarmente importante” ai sensi del D.Lgs. n. 490/99 e quelle ricadenti in aree percorse dal fuoco.

La lettera “g”, introdotta in sede di conversione del decreto legge, preclude l’accesso al condono a quelle opere che siano state realizzate su terreni appartenenti al demanio marittimo, lacuale o fluviale o su aree soggette ad uso civico.

5 Per somma chiarezza, si rammenta ancora che, per “opere abusive” di cui alla prima e seconda tipologia della tabella allegata al Decreto n. 269 s’intendano usualmente gli interventi edilizi che –secondo la classificazione un tempo ricavabile dalla L. n. 457/78 ed, oggi, dal Testo Unico sull’Edilizia– sono riconducibili al concetto di nuova costruzione.

In esso vanno dunque ricompresi, oltre agli interventi consistenti nella realizzazione ex novo di un volume urbanisticamente rilevante, anche quelli definibili come ampliamento di un edificio preesistente oppure volti alla realizzazione di strutture pertinenziali, ove queste abbiano una volumetria pari o superiore al 20% dell’edificio cui accedono.

6 In tal senso T.A.R. Toscana , Sez. III, 14 maggio 2002, n. 1005.